Contro la crisi: lavoro in proprio o lavoro dipendente?

di Eleonora Mauri

Tea_Camporesi

Di questi tempi, il tema del lavoro è sempre caldo. La crisi, la contrazione dei consumi, le tasse, le difficoltà delle aziende sono gli argomenti che pesano di più nel mondo lavorativo. E tanti hanno scelto di tornare al lavoro dipendente come “paracadute”. Ma è davvero questa la risposta giusta nel momento di difficoltà? Ne parliamo con Tea Camporesi, consulente di carriera.

E: In questo periodo, con le difficoltà economiche, il tema dell’imprenditoria è discusso. Tu come la pensi, ci sono ancora le condizioni per avviare una propria attività o meglio la sicurezza del “posto fisso”?

T: La questione “lavoro in proprio-lavoro dipendente” esula dalle condizioni economiche generali, perché la crisi impatta su entrambi: se l’imprenditore incontra parecchie difficoltà (dalla tassazione al problema di trovare clienti paganti e fornitori puntuali), il dipendente affronta quasi quotidianamente l’incubo del licenziamento (dovuto non solo alla crisi dell’azienda, ma anche dai tagli del personale che derivano da acquisizioni e fusioni, prassi ormai normale anche in aziende solide). Quindi la sicurezza assoluta non c’è più da nessuna parte. Anzi, se fino al secolo scorso “mettersi in proprio” significava avere un capitale da investire (e da rischiare), oggigiorno tanti costi sono abbattibili: con pc e stampante si può lavorare ovunque, senza bisogno di strutture fisse. Grazie ai FabLab si possono anche produrre prototipi a poco prezzo e si possono creare business interessanti basati sullo scambio di prodotti e servizi (la cosiddetta “sharing economy”). E’ quindi più una questione di indole: chi è creativo, autonomo, amante delle sfide e in grado di autogestirsi, sarà più orientato al lavoro in proprio. Chi preferisce la regolarità, la vita aziendale, seguire regole fissate da altri (anche i dirigenti ne hanno!) con minori responsabilità, opterà per il lavoro dipendente. Penso che vantaggi e rischi ormai siano equivalenti in entrambi gli ambiti.

E: Tante donne si trovano a un punto morto al lavoro, con prospettive di carriera azzerate: cosa consiglieresti, ricercare un’altra azienda o provare una strada imprenditoriale?

T: Consiglio sempre di seguire la propria indole e la propria passione. Spesso chi viene dall’azienda tende a vedersi solo nella dimensione aziendale, di solito nel medesimo settore e nel ruolo ufficializzato dall’azienda (che spesso ha ben poco a che vedere con i contenuti reali). Il mio lavoro consiste proprio nell’aiutare le persone a guardarsi dentro dal punto di vista professionale e fare chiarezza non solo sulle competenze, ma anche su desideri, passioni, motivazioni e caratteristiche personali. C’è chi ha un hobby che potrebbe trasformarsi in attività lavorativa e necessita solo di prenderne coscienza, trovando dentro di sé la spinta necessaria per osare cambiar vita. C’è chi si sente più a proprio agio all’interno dell’azienda, ma si rende conto di saper e voler fare cose diverse, decidendo quindi di cambiare ruolo o settore. L’importante è cercare il più possibile di fare qualcosa che piaccia, in un ambiente consono: è vero che il lavoro è necessario per vivere, sono la prima a riconoscerlo, ma svolgere un lavoro che non piace affatto, in un ambiente magari ostile, o in una dimensione precaria, alla lunga diventa un incubo e rischia di compromettere la salute mentale.

E: Come riconoscere le migliori aziende da un punto di vista di quote rosa e crescita femminile?

T: Ci sono le classifiche tipo “top employers” e “Best place to work” che certificano le aziende in base alla qualità della vita lavorativa che assicurano ai loro dipendenti, anche in tema di gender diversity e opportunità di carriera. Ci sono però 3 aspetti da considerare. Il primo, queste aziende sono poche. Il secondo: si tratta di multinazionali in cui, generalmente, è possibile entrare solo se neolaureati o se provenienti da un’altra multinazionale. Ultimo, ma non meno importante: non sono le aziende a far crescere le donne, ma le donne stesse che devono imparare a crescere in qualsiasi azienda.

E: Se ci si trova a rischio taglio: consigli per gestire l’ansia e cercare nuove prospettive.

T: Innanzitutto evitare di cadere nella spirale dell’attesa, di chi si limita a fare gli scongiuri o cerca costantemente rassicurazioni che tanto non capiterà a lui. Si alimentano false speranze che poi, se arriva il licenziamento, riescono addirittura a “cogliere impreparati”. Meglio essere reattivi: cominciare a guardarsi intorno appena arrivano le voci dei tagli, per trovare qualche alternativa, e cercare di trasformare la situazione in un’opportunità: per guardare dentro sé stessi e trovare finalmente quella spinta al cambiamento che il tran-tran quotidiano tende a sopire. Ormai il licenziamento non è più qualcosa di cui vergognarsi: il lavoro si perde per colpa dell’azienda e dei suoi dirigenti incapaci di ben amministrala, non perché si ha lavorato male. Quindi inutile lamentarsi o arrabbiarsi: sono atteggiamenti che non risolvono nulla, anzi, frenano pesantemente la ricerca di nuove opportunità, Chi si presenta a un colloquio a pietire un lavoro qualsiasi o polemizzando e parlando male dell’azienda precedente, non ha alcuna possibilità, Meglio voltare pagina: analizzare la propria professionalità, essere consapevoli del proprio valore, avere il coraggio di definire le proprie preferenze e dar voce ai propri desideri, decidere cosa si vuole fare, dove e come, e indirizzare la ricerca in modo preciso e strutturato. Avere le idee chiare è fondamentale per proporsi efficacemente a un mercato del lavoro confuso.

 

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