26/06/2020

Oggi, a proposito di dentista e di formichina dei denti da latte, mi è tornato in mente l’apparecchio che ho dovuto portare per un lungo periodo da piccola, e, per come era fatto, è stato un apparecchio ortodontico piuttosto simbolico. Ero alle elementari e, per evitare che la lingua battesse continuamente contro l’arcata superiore, rischiando così di spingere in fuori i denti davanti, mi era stato messo un apparecchio dal cui palato scendevano dei “denti metallici”, insomma una specie di barriera o di diga che frenasse la lingua. Un dente, sottoposto a una forza, in questo caso la mia lingua, risponde sempre nel medesimo modo, indipendentemente dall’origine della forza: si adatta, cioè si muove nella direzione della forza. Questo grazie alla plasticità del tessuto osseo: il dente infatti di per sé è inerte, mentre il protagonista dello spostamento è il “parodonto”, cioè l’intercapedine tra dente e osso. Dunque per evitare una dentatura da coniglietto si doveva insegnare alla lingua la sua giusta posizione. Allora, inizi anni 70, non c’erano, come oggi, gli apparecchi invisibili, il mio era visibilissimo e, per fortuna, non era fisso, ma mobile, così potevo evitare di metterlo a scuola, la mia pronuncia altrimenti sarebbe stata decisamente ridicola. Non ricordo particolari problematiche psicologiche causate dall’invadenza dell’apparecchio, e non ho memoria di mal sopportazione o di rifiuto. Certo saper frenare la lingua e tenerla a bada è stato, evidentemente, un mio specifico, un percorso petroso che le parole hanno fatto tra cuore e mente prima di arrivare alle labbra. Ho trovato in questo senso una serie di frasi fatte e modi di dire azzeccatissimi. In classe mi facevano leggere a voce alta, e, prima di imparare a leggere, ero stata  una bimba piena di fantasia, chiacchierona e anche un po’ pagliaccia che non aveva frequentato l’asilo e che era cresciuta in un mondo di adulti, in albergo. Nelle interrogazioni al liceo e poi all’università durante gli esami me la cavavo sempre piuttosto bene e, come si usa dire, avevo la lingua in bocca ovvero riuscivo sempre a trovare e a esporre chiaramente gli argomenti necessari. Nella mia lunga adolescenza da manuale ho avuto quel che si dice una buona lingua: ero in grado di trovare le parole più forti per sostenere le mie opinioni, per proteggere le bugie o per perorare quelli che consideravo i miei diritti. Alla tavola da pranzo del ritz non ci si sedeva tanto per mangiare ma piuttosto per ritrovarsi, per parlare e, massimamente, discutere. Era il ring del confronto, l’alternativa era di farsi mangiare la lingua dal gatto stando muti per timidezza, per indifferenza o per tornaconto ma, più spesso, per amore di pace bisognava, letteralmente, mordersi la lingua trattenendosi dal dire qualcosa per prudenza o per eccesso di rispetto. La mia specialità era cambiar discorso o spostare l’attenzione su argomenti meno coinvolgenti ed esplosivi. La palestra della dialettica in famiglia era come lo spinning di oggi per la muscolatura, così ne sono uscita con una lingua affilata capace di affermazioni pungenti, e , come diceva la mia nonna ero ritenuta una linguacciuta, una che aveva troppa scioltezza nel parlare. La nonna Ida riteneva linguacciuta anche mia sorella che pure era la sua pupilla. Più grande ho cercato rifugio nel silenzio, una scorciatoia per non ricevere dei NO, ma il non detto rende rancorosi e genera fraintendimenti: a me è capitato soprattutto nei rapporti affettivi, ho avuto sempre paura di incrinarli irreparabilmente. Poi, definitivamente adulta, ho iniziato a reagire verbalmente, sempre più spesso, con parole taglienti per nascondere le emozioni. Oggi, quando ho la lingua sciolta, tendo a mitizzare o, al contrario, a essere troppo diretta e, avendo una buona loquela, mi accorgo di essere verbosa o prolissa, mi permetto di fare la parte della esternatrice, ma mi riconosco buone doti di narratrice, fu Kerouac, mi pare, a scrivere la famosa frase non si può insegnare al vecchio maestro una nuova canzone. Per me e per gli altri cerco motivazioni e ragioni e condizioni a sostegno delle mie scelte, assertiva o impositiva probabilmente, ma senz’altro cerco partecipazione e partecipo. Gloria è l’apparecchio ortodontico dei miei pensieri affinché, alla fine, io mi sappia controllare nel parlare e sorvegli il modo di esprimere la mia emotività.

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