Donne orientate allo smart working

Previsto un aumento della produttività di 27 miliardi di euro

smart working

Il 14% delle donne lascia il lavoro dopo il primo figlio:
il decreto dovrebbe ridurre questa percentuale

Il lavoro agile o smart work interessa il 67% delle imprese di medio-grandi dimensioni, come attestato dai dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.

Quando si parla di “smart working” si intende una prestazione di lavoro subordinata che può essere svolta in parte in azienda e in parte fuori, in qualsiasi posto, grazie all’utilizzo di strumenti tecnologici e con i limiti di orario previsti dalla contrattazione collettiva”, spiega Simone Colombo, consulente del lavoro ed esperto di direzione del personale in outsourcing.

smart woking il sito delle donneE se le aziende che si preparano ad adottare questo modello sono in crescita, il fenomeno interessa soprattutto le donne: il 72% si dichiara disponibile a lavorare in smart working. Il  30,4% ha motivato la scelta con la prospettiva di spendere più tempo in famiglia, mentre il 41,7% vede nella flessibilità di orari e luogo di lavoro un grande incentivo per la produttività. “Non solo il giusto equilibrio fra lavoro e famiglia nella scelta di accettare il lavoro agile, dunque, ma anche il desiderio di migliorare le proprie performance professionali”, dichiara Colombo.

I benefici sono però evidenti sia in termini di produttività che in termini di risparmio di costi diretti a seguito della diminuzione delle postazioni di lavoro o della reingenierizzazione degli spazi. Secondo i calcoli di Colombo, “L‘adozione di modelli di lavoro smart può aumentare la produttività delle aziende per un valore di 27 miliardi di euro e ridurre i costi fissi di 9 miliardi di euro. Telelavoro e riduzione degli spostamenti possono far risparmiare 4 miliardi di euro ai lavoratori, fra tra trasporti e spese di varia natura, come baby-sitter, pre-scuola, pasti, etc.”.

Il basso tasso di occupazione femminile italiano è, sfortunatamente, una delle certezze del nostro mercato del lavoro: con una percentuale del 47% restiamo tra gli ultimi in Europa, seguiti solo da Grecia e Malta. Di queste, quasi il 53% sono mamme, percentuale che sale al 57,8% tra le donne al primo figlio e scende al 39% di quelle con tre o più figli. Le scelte professionali delle donne lavoratrici sono influenzate naturalmente anche da età, grado di istruzione e tipo di coppia: il 14% delle lavoratrici smette di lavorare dopo la gravidanza. La maternità costa, e se lasciare il lavoro al primo figlio non sempre conviene, diventa quasi una scelta obbligata quando il costo dei servizi – asilo e babysitter – inizia a salire. La percentuale varia poi a seconda della nazionalità dei genitori, dell’area di residenza e del numero totale di figli. I dati sottolineano anche il persistere nel Mezzogiorno di un modello più “tradizionale”, che vede le donne uscire dal mercato del lavoro già dopo il primo figlio. Al Nord e al Centro, invece, le uscite sono direttamente in relazione con il numero dei figli. (Dati Istat)

Al momento però nel decreto si prevede solo l’estensione dell’indennità di maternità e forme di tutela inclusiva della maternità. Non c’è invece riferimento nel decreto legislativo alle due misure discusse nel Jobs Act che potrebbero favorire l’occupazione femminile, e su cui quindi va tenuta alta l’attenzione: il tax credit, un credito d’imposta per le donne lavoratrici, al di sotto di un certo reddito, con figli minori e la promozione dell’integrazione pubblico-privato nell’offerta di servizi per la prima infanzia, attualmente molto scarsi nel nostro Paese, dove la cura dei bambini è delegata alle mamme non lavoratrici e ai nonni (gratis, se ci sono). La combinazione di asili nido e detrazioni fiscali porterà ad un vero cambio di marcia quando la famiglia non dovrà confrontare i costi della cura con il potenziale guadagno del secondo percettore, tipicamente la donna.

Ma quali sono le difficoltà che questo provvedimento potrebbe incontrare in Italia? “Come si può intuire, l’introduzione dello smart working in un’azienda richiede un cambio radicale di mentalità poiché è necessario oltrepassare la misurazione del lavoro da termini orari ad una misurazione per obiettivi. Questo genere di mentalità è più diffuso negli negli USA. In Italia è ancora radicata nella mente degli imprenditori la credenza che il valore di una persona dipenda da quanto tempo trascorre in azienda”, precisa ancora Colombo.

Lo smart working inoltre non va confuso con il suo predecessore, il telelavoro. “Il telelavoro è una variazione della sede di lavoro e ciò comporta operativamente l’obbligo di comunicazioni ai fini INAIL ed il rispetto dei requisiti, nonché l’osservanza dei regolamenti sulla sicurezza DLgs. 81/08. È necessario delineare le modalità di svolgimento dell’attività, l’orario di lavoro, le fasce di reperibilità e può essere temporaneo o a tempo indeterminato – specifica Colombo – Per quanto riguarda lo smart working, invece, la sede di lavoro rimane sempre quella abituale ovvero la sede dell’impresa, tanto che non è necessaria alcuna comunicazione formale all’INAIL, mentre va redatta un’informativa in materia di sicurezza ai sensi del DLgs 81/08”.

Simone Colombo

Simone Colombo

Lo smart working può essere una risorsa utile per gestire i talenti e per rispondere alle esigenze di un mercato globalizzato che premia chi risponde nel più breve tempo possibile. Ma, come ogni altro strumento di organizzazione, deve essere coerente con gli obiettivi dell’azienda e con il suo modello di business: “Lo smart working non è una soluzione adatta a tutte le organizzazioni e non  è neppure applicabile a tutti i ruoli aziendali e per tutte le persone. Imprenditori e manager, va sottolineato, perdono il controllo diretto sui propri collaboratori, tant’è che lo smart working tende a generare un organigramma orizzontale e non più piramidale, come normalmente rappresentato. La scelta va fatta in funzione delle abilità “digitali” del dipendente, nonché dell’intensità di relazione del ruolo che ognuno occupa in azienda in termini anche di coordinamento nell’attività organizzativa”, conclude Colombo.

La formazione, così come la cultura aziendale e l’ambiente, gioca un ruolo importante per il successo dello smart working. L’uso degli strumenti digitali richiede competenze che vanno oltre la semplice praticità d’uso. Anche l’atteggiamento mentale deve essere ‘smart’ e un costante focus sul business dell’azienda.

Simone Colombo è un consulente del lavoro ed esperto di direzione del personale in outsourcing. L’obiettivo del professionista in questa materia è quello di aiutare gli imprenditori ad evitare ‘traumi’, attraverso una gestione ottimale delle persone in tutte le fasi del loro ciclo di vita in azienda: dall’assunzione allo sviluppo, fino alla chiusura (possibilmente serena) del rapporto. Questa particolare capacità deriva da una particolare inclinazione personale alla cura dell’altro, unita alle competenze specifiche apprese in specifici corsi di formazione.

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