Giornata eroica per GLORIA. Dico sul serio: stamattina l’idraulica e stasera la tecnologia, mi hanno tradita.
Abito il e al quinto piano del ritz e già questo non aiuta né la pressione, né la portata dell’acqua. A sentirmi parlare così, mio padre, l’ingegnere, sarebbe contento. Da piccola, credo in seconda elementare, composi il classico temino “racconta il lavoro dei tuoi genitori” così: “mio padre aggiusta tubi e ascensori e mia mamma parla con i clienti”. Non starò qui a chiarire il ruolo di mia madre che era un perfetto direttore d’albergo, ma papà con la tuta da Cipputi cancellatelo. L’ing Poletto, in versione idraulico e meccanico, indossava sempre gilet e papillon. Ma veniamo alla sua indegna figlia, quella che appunto non era nata su di un pistone, come diceva lui. Stamattina l’acqua non usciva dal rubinetto. Scorreva un filo d’acqua per l’esattezza e lo sciacquone gorgogliava in modo sinistro, e io non sapevo a quale santo votarmi.
Ho letto un dato Unicef impressionante: nel mondo 1 persona su 3 è senza acqua potabile. Incredibile e impensabile per chi come me sta vivendo in un albergo che conta forse 300 rubinetti di acqua corrente potabile pensando ai soli lavabi… ma al ritz cioè in un hotel termale la questione acque dà un senso al suo stesso esistere. Pensate poi che tutta la struttura usa la geotermia per il riscaldamento sfruttando il gap termico dell’acqua termale. Cercare, in un albergo di oltre 50 anni, con 120 camere tutte con uno o due bagni, un reparto termale con 12 vasche e 14 camerini, 2 piscine semiolimpioniche, 3 bar e 3 ristoranti ognuno con la sua toilette, e una hall con 4 bagni; nel labirinto di tubi vecchi e nuovi, sotterranei e non, termali e comunali, cercare una chiave, un galleggiante o una pompa, un buco, una perdita o un guasto; è un’impresa titanica… non voglio farvela lunga ma alla fine ho chiamato Giorgio, il magico manutentore del ritz, che ancora sta cercando e indagando….
Se ci sembra impossibile poter vivere senz’acqua corrente, senza tecnologia si può senz’altro, anzi disintossicarsi dall’eccesso di connessione è un protocollo da seguire di tanto in tanto. Predico bene ma razzolo male, infatti, mi vergogno a dirlo, ma ho avuto un attimo di panico, nel pomeriggio, quando, di punto in bianco, si è spento il computer. Nel bel mezzo di un webex, fondamentalmente una video chiamata, tipo zoom ma inutilmente sofisticato, al quale mi ero collegata non senza difficoltà, per confrontarmi con colleghe di diverse regioni italiani su un mio progetto turistico che ho battezzato Woman Destination; lo schermo del mio computer è diventato improvvisamente nero. E’ vero che il progetto mi sta molto a cuore e che lo coltivo da tanto tempo, è vero che le albergatrici non sono facili da attrarre, ma mi sono resa conto di quanto, soprattutto in questo periodo di cattività e solitudine, il computer di lavoro ovvero quello da postazione, con tutti i programmi e i dati scaricati e archiviati, con le mie carte e scartoffie intorno; mi appaia indispensabile. Non va bene, lo so, ma è anche vero che il mio attaccamento dipende molto dalla sicurezza che mi dà un oggetto tecnologico che conosco, un po’ come la macchina che guido questo è il mio computer. Non so per voi, ma per me è un trauma cambiare l’auto, il cellulare o il computer finanche la sua tastiera. Per poca dimestichezza, per una certa diffidenza che nasce dall’ignoranza, mi abituo e mi adeguo, ma non mi sento né sicura, né totalmente autonoma rispetto all’enorme potenzialità di questi affascinanti strumenti. Affascinanti e stupidi… si era allentato uno spinotto di collegamento: fondamentalmente la bauca sono io.