Se ne sta in questi giorni occupando il cinema. Ritorna sulla cresta dell’onda la beat generation, quella di Kerouac, Ginsberg, Burroughs. Un po’ tardi, visto che tutta la carica eversiva del movimento della beat generation si è ormai esaurito, diluito e riassorbito, come un grosso ematoma, nel cuore degli Stati Uniti. Da tempo.
Affiora sugli schermi in questi giorni “On the Road” il film tratto dal bellissimo romanzo di Kerouac che subito dopo la sua pubblicazione fu definito il manifesto della beat generation. La corrente letteraria ed artistica aveva alcuni punti cardine su cui fondarsi:
- la sperimentazione di droghe psicotrope;
- la filosofia zen e orientale in genere;
- il bisogno di mettersi in marcia, di andare e di scoprire da sé (mobilità che è una caratteristica davvero tutta americana: viaggiare da nord a sud e da est a ovest senza smettere di sentirsi a casa propria)
- una sessualità più libera;
- l’abbandono del materialismo (e con esso del consumismo tanto caro al capitalismo americano);
- la spinta verso l’anti-conformismo.
Oggi, abituati come siamo alla trasgressione, rimaniamo un po’ colpiti dal fatto che fosse espressione di trasgressione il be bop, o che l’autostop potesse essere simbolo di ribellione. Eppure in quel movimento avanguardistico degli anni ’50 che coinvolse scrittori, poeti e artisti, nato nell’immediato dopoguerra, ci sono le radici delle proteste sessantottine in tutto il mondo, e la rivoluzione culturale che, in quel periodo, prese avvio.
Allora, un cinema poco coraggioso, evitò di produrre un film basato sul romanzo di Kerouac e oggi forse quello stesso cinema celebra quei suoi miti del passato come eroi. Solo ora, tanto lontani nel tempo e nella storia, psosono finalmente essere idolatrati e celebrati, tributando loro giusti meriti. Lo hanno fatto Rob Epstein e Jeffrey Friedman con un biopic dedicato al poeta Ginsberg dal titolo “Urlo” (che non ha avuto grande successo a dire il vero) e lo fa oggi con un road movie di grande poeticità e lirismo Walter Salles che, non dubitiamone, non avrà grande successo.
La beat ebbe strascichi interessanti anche in Italia. Non dimentichiamo l’esperienza all’interno di quel movimento di Fernanda Pivano, nota traduttrice di scrittori e poeti americani (allieva spirituale e materiale di un grande americanista come Cesare Pavese) che da un suo viaggio negli States riportò nel Bel Paese la beat.
Della beat generation e dei suoi protagonisti fu grande prefatrice e ne tradusse i capolavori. Il suo destino di donna amica dei libri e della letteratura è quello di rimanere una scrittrice all’ombra dei giganti, loro megafono nelle lande italiane.
Dobbiamo forse un po’ in parte anche a lei se oggi grandi capolavori non sono rimasti sconosciuti come è avvenuto per altre grandi opere di scrittori americani come Thomas Pynchon. E dobbiamo a lei se tante amiche si sono affezionate agli scrittori americani, da Hemingway a Kerouac.