Fabio Deotto

Fabio Deotto per Super8

Marzo è un mese particolare per l’AbanoRitz, scelto non a caso da Terry e Ida Poletto per essere dedicato a un sogno, un progetto, una realtà: la realizzazione di Super 8, che vi invitiamo, di settimana in settimana, a scoprire. Otto autori hanno soggiornato nel nostro hotel, ma più precisamente nelle stanze del quinto piano: le nostre Creative Room. Otto camere, otto scrittori, otto racconti.

Questa settimana leggiamo Fabio Deotto,scrittore, giornalista e traduttore classe 82. I suoi temi sono principalmente di scienza, politica, letteratura e cinema per il Corriere della Sera, IL – Magazine del Sole24 Ore, Esquire e il Tascabile. Vince il Premio Zocca nel 2015 con Condominio R39 (ed. Einaudi), il suo primo romanzo. Vive a Milano e lavora alla Scuola Holden insegnando giornalismo e non fiction. Il racconto per noi, l’ha scritto ispirandosi alla camera 504 “Garage” che ci presenta con

“Una questione di tempo”

La porta aveva una chiave inglese al posto della maniglia, e più che un vezzo a Laerte Capisana sembrò un avvertimento: qualunque cosa avesse programmato per quelle due settimane avrebbe dovuto prepararsi a rimanere spiazzato. L’interno manteneva quella promessa: le tende in fondo alla stanza seguivano un percorso arcuato salendo dai lati per schiudersi al centro, il fascio di luce che scappava al tessuto si rifrangeva su due sedie ricavate da bidoni di carburante, un ampio tavolo da meccanico occupava il lato sinistro della stanza catturando solo temporaneamente l’attenzione, che poi inevitabilmente ricadeva a destra, dove la scocca mutilata di una Jaguar verde smeraldo incapsulava un materasso dall’aspetto comodo. Senza levarsi le scarpe, Laerte si levò il libro da sotto braccio, si sdraiò contro lo schienale, lo aprì alla prima pagina e si impose di finire almeno un capitolo. Il letto in cui era cresciuto era una riproduzione in plastica di un’auto blu di lusso. Aveva fianchi bombati che lo riparavano come un carapace e una lampadina incastrata sotto l’alettone che aveva bruciato più volte, nelle notti in cui si incaponiva a leggere romanzi troppo pesanti per essere tenuti sollevati. Fino ai tredici anni, Laerte aveva sempre chiuso gli occhi immaginando che appena la notte avesse ingoiato ogni traccia di luce, sotto quel materasso, un motore invisibile avrebbe cominciato a brontolare, le ruote di plastica avrebbero spezzato i sostegni che le bloccavano e il suo letto l’avrebbe trasportato lontano dagli zaini e dalle campanelle, sfrecciando senza direzione, lasciando alle sue spalle una scia colorata di avventure a cui nessuno nel mondo reale avrebbe mai avuto il coraggio di credere. Una sera, mentre attaccava il capitolo 88 de Il conte di Montecristo, la lampadina aveva sfrigolato un breve lamento e il buio l’aveva lasciato solo. Il giorno dopo, al ritorno da scuola, il letto da corsa era scomparso. Al suo posto, Laerte aveva trovato un Ikea a una piazza e mezzo, con una struttura in legno scuro che si integrava perfettamente in un ambiente monocolore che non aveva mai sentito il bisogno di personalizzare. La stanza in cui aveva posato la valigia qualche ora prima, invece, era tutta costruita in funzione dell’automobile che ne occupava il centro. Alzando lo sguardo dal libro, notò che la porta del bagno era una saracinesca da meccanico, anche le piastrelle del pavimento sembravano quelle di un’officina. Laerte riportò lo sguardo sulle parole stampate e si accorse di aver perso di nuovo il filo. In un’ora non aveva nemmeno voltato pagina. Chiuse il romanzo e si alzò dal letto. Non poteva pretendere di risolvere il problema di colpo: prima doveva scrollarsi di dosso l’aria di città. Era solo una questione di tempo. Era sempre una questione di tempo. L’ascensore lo raggiunse al quinto piano con un trillo ovattato, Laerte schiacciò il pulsante per il piano terra e notò che sullo zerbino, sotto il logo dell’albergo, era impresso il giorno della settimana. Le porte si aprirono su un atrio costellato di statue in bronzo, tavolinetti in noce e poltrone in broccato; le colonne, adornate da grappoli di lampade, descrivevano un percorso naturale che dall’ingresso portava fino all’angolo bar, sopra cui incombeva un enorme lampadario in vetro soffiato che ricordava un iceberg rovesciato. Era sceso con l’intento di uscire a comprarsi un costume e delle ciabatte per la piscina termale, ma nell’attraversare l’atrio l’occhio gli cadde sulla stanza a sinistra dell’ingresso. All’interno erano sistemate diverse poltrone, dei quadri, alcuni libri appoggiati sui tavolinetti, sui finestroni di vetro interni una serigrafia scandiva: Sala Fumatori. Laerte strinse il libro tra le mani e si avvicinò, sperando di trovarci dentro qualcuno. Erano anni che non toccava una sigaretta. Sulla sinistra, seduto su una poltrona con le gambe accavallate e il capo chino su un libro, c’era un signore dall’aspetto elegante; indossava un vestito color zaffiro, con bottoni e gemelli borchiati, la barba canuta e gli occhiali a montatura spessa nascondevano buona parte del volto, sul tavolinetto aveva posato un bicchiere e un pacchetto di Winston rosse.

“Posso rubargliene una?” domandò Laerte, rendendosi conto troppo tardi di non essersi nemmeno presentato.

L’uomo levò lo sguardo dal libro e si allungò a prendere il pacchetto: “Prego.”

 Laerte accettò sigaretta e accendino, inspirò a occhi chiusi: “Ne avevo bisogno.”

 L’uomo chiuse il libro e si portò il bicchiere alle labbra

“Stressato?”

Laerte sbuffò una nuvola di lato e prese posto sulla poltrona di fronte.

“Spero che queste due settimane servano a qualcosa.”

“Da cosa scappa?” Laerte lo fissò: “Cosa intende?”

“Tutti qui scappano da qualcosa; o la cercano, nel migliore dei casi.”

Laerte sbuffò altro fumo, sorrise “In questo caso: diciamo che sto scappando da un blocco.”

“Lei scrive?”

“Da cosa l’ha capito?”

L’uomo posò il bicchiere “Si porta dietro un libro ma non sembra così ansioso di leggerlo. Succede, con gli scrittori: i libri diventano feticci.”

Laerte si rigirò il volume fra le mani.

“Non è quel tipo di blocco.” Disse.

“No?”

“Il punto è che non riesco più a leggere.”

“Credo capiti a tutti, ogni tanto.”

Laerte si accorse di aver già raggiunto il filtro, spense la sigaretta e scosse la testa.

“Sono mesi che non riesco ad arrivare alla fine di un capitolo. In compenso scrivo in continuazione. Potessi, scriverei e basta.”

“E perché non lo fa?”

La placida indifferenza dell’uomo cominciava a spazientirlo “Perché di solito si scrive per essere letti, e allora sarebbe il caso di leggere a mia volta. E poi sento che la mia scrittura si sta appiattendo.”

“Ma perché venire alle terme?”

Laerte arrossì: “Da piccolo avevo un letto a forma di auto, ci passavo ore e ore a leggere, era la cosa che mi piaceva di più. La sera leggevo, la notte il mio cervello inventava storie. Più che un letto a forma di auto, era un macchinario a forma di letto: mettevi storie nel serbatoio quando la luce era accesa, ne uscivano dallo scappamento durante il buio. Insomma, al quinto piano qui c’è una stanza con un letto a forma di auto, e ho pensato…” Si interruppe. L’uomo lo fissava in silenzio, Laerte diede un’occhiata al libro che aveva in grembo: Il tulipano nero.

“Sì, lo so, è una cosa stupida.”

“Sta funzionando?”

Laerte scosse la testa “Per ora no.” disse, poi indicò il libro dell’uomo “Dumas, eh? Ci ho perso le diottrie, da ragazzino.”

“Lei cosa legge?”

Laerte mostrò il suo: “Nel regno a venire, Ben Lerner”.

“E le piace?”

“Be’, è scritto molto bene.”

L’uomo lo fissò di nuovo senza dire nulla. Laerte capì che aspettava che se ne andasse.

“Buona lettura, allora” disse, rimettendosi il libro sotto braccio.

“A lei” disse l’uomo, con lo sguardo già calato sulle pagine.

Quel pomeriggio, sulla strada per il negozio di costumi, Laerte si fermò in una piccola cartolibreria. Camminando tra gli scaffali ne trovò uno interamente dedicato ai classici d’avventura. Tornato in albergo, salì in fretta a cambiarsi e scese direttamente in piscina, dove si concesse di calarsi nelle acque calde delle vasche esterne: rimase a mollo fino a riempirsi i polpastrelli di grinze, dopodiché andò a stendersi su un lettino all’interno. Lì, con le dita ancora umide, aprì la copia tascabile de I Tre Moschettieri e cominciò a leggere, lasciandosi cullare dal gorgoglio irregolare delle persone che nuotavano. Quando alzò gli occhi dalle pagine il costume era ormai asciutto, la piscina era vuota e il sole si era portato via ogni sbavatura di tramonto. Il mattino dopo, Laerte si svegliò di buon’ora. Fece colazione con calma, dopodiché tornò in piscina e riprese a leggere. Finì il romanzo di Dumas in poche ore, e subito uscì a comprarne altri due. Aveva programmato di scrivere almeno due capitoli del suo nuovo romanzo ma ancora non aveva tolto il laptop dalla valigia. Quella sera si ripromise di concedersi un altro giorno, prima di rimettersi, ma ogni volta trovava una ragione per rimandare, e così fece fino alla mattina in cui si svegliò e si rese conto che era tempo di fare la valigia. In due settimane non aveva scritto una sola riga, in compenso aveva letto undici romanzi.

L’uomo dietro alla reception gli disse che aveva un’aria riposata.

“Grazie.”

“Piove, vuole che le chiami un taxi?”

Laerte si voltò verso la sala fumatori: “Mi dia un attimo.

” Trovò l’uomo ancora seduto sulla stessa poltrona. Questa volta aveva una sigaretta appesa alle labbra, il suo sguardo si perdeva a osservare la pioggia che rigava i finestroni esterni.

“La devo ringraziare” disse Laerte, posando la valigia a lato dell’ingresso.

“Dice?”

A Laerte scappò da ridere mentre alzava le mani e divaricava bene le dita.

“Dieci? Ha letto dieci libri?”

“Undici” annuì lui “Nemmeno mi bastano le dita.”

L’uomo appoggiò la mano con la sigaretta sul bracciolo e gli concesse un sorriso.

“Mi fa piacere. Ma io cosa c’entro?”

“Il Tulipano Nero” disse Laerte, rimaneva sulla porta senza chiuderla “Quello ha sbloccato tutto.”

“Se lo dice lei.”

“Non mi crede?”

“Io credo che lei si sia concesso lo spazio che serviva.”

“Certo, per questo ho prenotato per due settimane.”

L’uomo scosse la testa “Ho detto spazio, non tempo. E parlo di spazio mentale.”

“Non capisco.”

“L’altro giorno mi ha detto che leggere per lei è sempre equivalso a immettere carburante in un serbatoio. Ma non è per quello che ha cominciato a sfogliare libri. Il suo letto sarà anche stato una macchina, ma il suo cervello funziona in modo diverso. Leggere e scrivere non si possono ridurre a input e output, dipendono dalla quantità di spazio mentale che ci concediamo di sottrarre al tempo.” L’uomo spense la sigaretta e prese il bicchiere che riposava sul tavolinetto.

Laerte si costrinse a dire qualcosa: “Rimane qui ancora molto?”

L’uomo alzò il bicchiere a coprire la bocca “Ancora non ho deciso.” disse, dopodiché aprì il libro che aveva tenuto in grembo tutto il tempo e lo privò di qualsiasi attenzione. Aspettando il taxi, mentre la pioggia percuoteva senza convinzione la tenda protettiva, Laerte si voltò un’ultima volta a guardare l’uomo nella sala fumatori: si era acceso una sigaretta e girava le pagine lentamente. Come se avesse smesso di scappare, come se fosse seduto su quella poltrona da sempre.

© Giovanni De Sandre

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