Ester Armanino per Super8

Marzo è un mese particolare per l’AbanoRitz, scelto non a caso da Terry e Ida Poletto per essere dedicato a un sogno, un progetto, una realtà: la realizzazione di Super 8, che vi invitiamo, di settimana in settimana, a scoprire. Otto autori hanno soggiornato nel nostro hotel, ma più precisamente nelle stanze del quinto piano: le nostre Creative Room. Otto camere, otto scrittori, otto racconti.

Questa settimana leggiamo Ester Armanino., architetto di Genova classe 82. Il suo primo romanzo “Storia naturale di una famiglia” (ed. Einaudi, 2011) ha vinto il Premio Kihlgren Opera Prima, il Premio Viadana Giovani, il Premio Zocca e il Premio per la Cultura Mediterranea nella sezione Narrativa giovani. Nel 2019 viene pubblicato il suo primo libro per bambini: “Una balena va in montagna” (ed. Salani). Noi la portiamo nella camera design 511 con un letto sospeso, dove Ester riesce a far volare la nostra immaginazione con

“Dormire sola”

In quel periodo ero ospite di mio padre perché casa mia era in ristrutturazione. Seguivo i lavori in ogni ritaglio di tempo possibile, dall’ufficio mi precipitavo in cantiere dove mangiavo un tramezzino in compagnia degli operai parlando di tracce, derivazioni, pose varie. Alla sera mi addormentavo nella camera di quand’ero adolescente riascoltando il suono delle demolizioni che avevo registrato, un suono concreto, di una dolcezza disarmante. Da poco il mio corpo si era abituato a stare negli spazi per una persona sola. Ci si era rintanato come per escludere la possibilità che un altro corpo condividesse qualcosa con lui. Ed era diventato un corpo tecnico. Con un passo misurava il varco di una porta, con le braccia simulava la posizione dei moduli della cucina. Gli operai lo guardavano scavalcare prolunghe e canestri colmi di calcinacci, salire in cima a scale telescopiche per abbinare i motivi floreali degli stucchi. Sembravano preoccupati per lui, dicevano: attenta a non farti male contro questo o quello, ma il mio corpo non si sarebbe mai fatto male a quel modo. Quando mi hanno invitato all’hotel AbanoRitz per un breve soggiorno termale, ho detto al mio corpo: sono sicura che ti piacerà, oppure che te lo farai piacere. Ad agitarlo era il fatto che mi avessero destinato una suite completamente rinnovata, la 511. Il letto matrimoniale con quattro guanciali, gli accappatoi doppi, un solo posto a tavola apparecchiato per colazione e cena, tutto mi avrebbe ricordato che non ero più parte di una coppia ma che il mondo era fatto così, per due. Potrai scegliere addirittura tra quattro costumi da bagno, ho detto al mio corpo mentre eravamo già in treno. Lui si è voltato impassibile a guardare fuori dal finestrino, un bosco d’ippocastani in fiore, un ponte sopra un fosso, la primavera. All’AbanoRitz, il fattorino ha lasciato il mio bagaglio sulla soglia della camera e poi mi ha augurato un piacevole soggiorno. Ho chiuso la porta e tirato le grandi tende che oscuravano un intero lato della stanza. La luce è entrata abbondante, dappertutto. La camera affacciava sul lato ovest dell’albergo, dove c’erano le vasche di raccolta dell’acqua termale che sgorgava e si mischiava al fango maturo. Quell’acqua sorgiva aveva impiegato venticinque anni a scendere attraverso i monti Lessini e poi risalire dal basamento cristallino a tremila metri di profondità lungo i condotti vulcanici dei Colli Euganei. Quindi proveniva dai miei dieci anni, cioè dall’età in cui essere sola rappresentava una conquista. Ho fatto un giro nei due bagni speculari, acceso e spento l’asciugacapelli per controllare quanto fosse potente, aperto la valigia per prendere uno dei costumi e indossarlo, controllato lo stato della ceretta, indossato l’accappatoio capiente, soffice e bianco, per temporeggiare. Giunto il momento di affrontare la realtà, ho portato il mio corpo davanti al grande letto sospeso, un pezzo di design. Lo sapevi che, gli ho detto, un europeo su dieci è stato concepito su un letto Ikea? Ma il mio corpo non ha riso. Gli mancava il suo cantiere, si era indurito come la malta tra i mattoni della tramezza nuova. Allora ho preso la chiave e sono scesa nella hall a conoscere gli altri ospiti. Perché in un albergo non si può essere soli. Si può scegliere di stare da soli, ma è un concetto completamente diverso. Eravamo in sei, poco dopo, a fare conoscenza. Tutti soli ma in buona compagnia, seduti sulle sdraio della piscina coperta a guardare quella esterna, dove i getti dell’idromassaggio facevano spalancare la bocca alla gente per la sorpresa e il piacere. Parlavamo di libri, di appartamenti, di cani, di città vicine o lontane, di storie d’amore, di sesso, di attacchi di panico. Abbiamo guardato il tramonto sorseggiando degli spritz. Una ragazza ha detto: il sole mantiene sempre la parola data, di tutti gli altri non si può mai sapere. Era vero. Quando si è in due, ti aspetti sempre che l’altro torni da te, ma non è detto. Se invece si è soli, non ti aspetti proprio niente, anzi quel che può capitare riuscirà perfino a sorprenderti. Il mio corpo ha riso a una battuta, poi si è avvicinato a un altro corpo per tastare un osso scomposto in un polso che non si era mai risaldato. Allora abbiamo abbandonato gli accappatoi e siamo scivolati tra i vapori termali della vasca. Fuori era una notte fresca di metà aprile, dentro invece era caldo, con la piscina illuminata dai fari sommersi. Ho spiato il mio corpo sott’acqua. Sembrava di nuovo capace di movimenti fluidi, di volermi bene. Improvvisamente era leggero, calmo e in ascolto per me. Quando sono rientrata in camera, mi sono spogliata e lasciata cadere sul letto matrimoniale. Stesa a pancia in giù, sentivo il battito del mio cuore nel materasso. Caspita, ho detto al mio corpo, è ancora intero e funzionante. Batteva preciso, due colpi forti e riconoscenti nonostante tutto. Ho chiuso gli occhi e visto il progetto di casa mia. Molto più a ovest, a quattrocento chilometri dalla sorgente dell’acqua curativa, il cantiere cresceva tra le mani esperte degli operai che, fumando camel blu, preparavano fanghi, massaggi, rimettevano in bolla le storture. In quella casa ci sarebbe stato molto spazio per tante solitudini. Avrei organizzato una festa con gli amici dell’AbanoRitz per stare a mollo nel presente e continuare a parlare, toccarci le ossa scomposte, raccontare storie di tatuaggi, sentirci felici. Però più avanti, non subito. Ho riaperto gli occhi e mi sono girata a pancia in su. In quel momento ero altrove, con le pantofole doppie ai piedi di un letto gigantesco, nella sovrabbondanza. Si stava bene anche lì. È bastato fidarsi, ho detto alla camera 511, mentre il mio corpo si addormentava in stato di grazia. Sembrava che in ogni camera ci fosse almeno un cuore in riparazione e che l’albergo fosse grato di questo battere incessante. Sembrava la prima volta per tutto, anche per dormire sola.

© Giovanni De Sandre

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