Quando mi sono sposata, avevo appena compiuto 24 anni e non avevo mai cucinato in vita mia. Cresciuta in albergo, ero sprovvista di un esempio casalingo a cui fare riferimento. Come tutte le neofite ho imparato presto e, da autodidatta, sono stata una sperimentatrice curiosa. Sostenuta dal plauso sincero di un marito viziato da manicaretti meridionali, tutto sembrava nuovo e bellissimo; senza ripetitività o noia, imparavo a fare la spesa e a preparare piatti colorati e creativi attingendo alle immagini della cucina d’albergo: sicuramente ero una cuoca originale. Entusiasta del talento acquisito, ho osato menù molto vari e la tavola era sempre preparata secondo la mise en place dell’hotellerie, dunque estetica e innovativa per una giovane famiglia che in pochissimi anni avrebbe avuto come commensali anche due bambini. I miei figli, come molti maschi, mangiavano volentieri e con appetito; malgrado le intolleranze alimentari, davano soddisfazione e ben presto la tavola avrebbe accolto sempre qualche ospite in più. Festeggiamenti, pranzi di lavoro, cene tra amici e la presenza di tanti bambini davano sfogo alla mia naturale propensione all’accoglienza. Far da mangiare per molti, anche senza troppi preparativi e anticipazioni, mi rendeva felice, mi piaceva preparare per più persone, guardare gente a me care attardarsi a tavola per chiacchierare insieme mi gratificava. Era appagante assistere allo spettacolo di quel calore umano che si sprigionava da una tavolata che io stessa avevo imbandito.
Un po’ alla volta, come è successo per la saletta del ritz, dove mangiavo da ragazzina con tutta la mia famiglia, anche la sala da pranzo di casa è andata svuotandosi, i figli avevano lasciato il nido, il lavoro e l’accumularsi di nuove responsabilità teneva lontano noi genitori, e me in particolare, per periodi sempre più lunghi; i momenti di ritrovo diventavano sempre più difficili da organizzare, mio suocero si è ammalato, gli zii più vicini sono mancati, i genitori sono invecchiati, gli amici single, i più felici di trovare una mensa che li ospitasse, si accasavano… Quello slancio di 20 anni prima perdeva, poco a poco, la sua spinta e la sua energia vitale. Un mondo, il mio mondo, quella “casalinghitudine” tutta particolare che mi ero inventata importando l’esperienza dell’albergatrice, aveva perso la sua magia, per sempre. Nel frattempo, incredibilmente, in men che non si dica, la mia anima da ristoratrice, cresciuta a fianco di una madre che inventava menù per 200 persone e assaggiava ogni singolo piatto e intingolo con un palato da chef stellato, è saltata fuori con prepotenza. Rinnovare il servizio e la proposta gastronomica del ritz era diventato compito mio. Al contrario di mia mamma io avevo anche un buon rapporto con il cibo ed è cosi che ho creato il ristorantino Il brutto anatroccolo, di cui vi ho già parlato e che si aggiungeva alle soluzioni ristorative dell’albergo. Un ristorantino sostitutivo di quella comunità di affetti e interazioni che si erano dissolti lungo la mia vita? Certo una gran fatica emotiva e fisica tenere tutti simbolicamente attorno a un tavolo! Trattenere troppi soggetti diversi seduti di fronte a uno stesso piatto ideale è uno sforzo a cui, più o meno volontariamente, ho rinunciato. Ho rimosso l’idea di un convivio matriarcale, dal banchetto degli affetti si erano alzate, anche senza chiedere il permesso, e forse con le loro buone ragioni, tante persone. E allora liberi tutti!
Nella mia mansarda in Ghetto a Padova, dove vivo sola oramai da 6 anni, avevo l’abitudine, prima del Covid, di rientrare comunque e a qualsiasi ora finissi di lavorare al ritz: era importante cenare a casa propria. Seppure stanca morta, una volta arrivata a casetta mia, mi facevo da mangiare piatti semplici, ma sfiziosissimi; mi viziavo con un frigo pieno di leccornie che a volte non occorreva neanche cucinare e mi concedevo la cena a letto. Nelle piazze patavine mi prendevo intere mattine girando per i banchi in cerca di primizie, di novità bio, di prodotti esotici come anche a km 0. Ora, da quando abito il ritz deserto, ho praticamente smesso di cucinare e faccio una spesa minimalista. La nuova sfida con me stessa è riuscire a nutrirmi con un enorme frigo praticamente vuoto. Le 2 piastre da campeggio mi servono solo per bollire. Ho riesumato 3 pentole e 2 padelle dismesse della cucina dell’albergo: le uniche di dimensione umane, le uniche che hanno una capienza da monoporzione. In acciaio, con il fondo pieno di botte fuori e di graffi dentro, sono perfette per me che ora mangio solo quando ho fame, mentre è GLORIA che nutre quotidianamente i miei pensieri. Pentole vecchie, ma felici e senza teflon.
Una rocambolesca e commovente ricognizione profondamente femminile del rapporto con un cibo che, spesso, gli uomini non conoscono: il cibo che si progetta, si prepara, si serve. E si osserva nello sguardo di chi lo mangia che effetto fa.
La sensibilità del tuo messaggio è la giusta chiosa alla mia pagina che, come tutte, scrivo più con il cuore che con la testa.