Chiacchierando con Gianni Canova*
Nel cinema, Truffaut è stato sicuramente uno di quelli che amava le donne, per citare il titolo di un suo film, le amava con uno sguardo privato da ogni tentazione voyeristica o “maschilista”. La delicatezza, la leggerezza e anche l’ironia dello sguardo di Truffaut erano tali per cui riusciva a trasmettere – quanto meno a me, spettatore maschio – una visione del femminile non scontata, non stereotipata, speso sorprendente, in ogni caso intrigante. Penso per esempio ad un personaggio come quello di Jeanne Moreau in Jules et Jim, che è una delle figure femminili più anticonformiste, più imprevedibili – ma nello stesso tempo più autentiche e più vere – che io abbia mai visto al cinema, molto più di come sia il personaggio nel romanzo dal quale è tratto. Truffaut e Jeanne Moreau riescono a farlo venir fuori con una vivezza, con una plasticità, un’intensità di toni unica.
Non solo, amo molto anche il Truffaut che si confronta con i canoni del melò – inteso come forma cinematografica che racconta di amori impossibli usando come chiave espressiva quella dell’eccesso – e allora film come La signora della porta accanto, con questi due straordinari interpreti che si amano fino alla morte e oltre, viene tradotta in immagine con una potenza incredibile. Fanny Ardant si fa carico di interiorizzare nel proprio corpo e nel proprio sguardo di donna la devastante potenza della passione, il non poter vivere senza passione ma il non poter che morire per la passione: questa messa in scena della fatalità della passione in un personaggio femminile come quello della Ardant mi intriga molto, nel senso che mi riguarda molto.
Tra i film di Truffaut amo anche quelli fatti da Cathrine Deneuve, d’altro canto Truffaut disse una volta che il cinema è anche questo: prendere la macchina da presa e accenderla davanti a Cathrine Deneuve e guardarla, lasciare che lei viva, che respiri, che cammini, che non faccia nulla. Ogni inquadratura su di lei è straordinaria e credo che la grandezza di questa attrice sia stata valorizzata soprattutto nei film di Truffaut.
Amo molto il modo in cui riesce ad isolare dei dettagli del femminile, che possono essere dei dettagli fisici – le scarpe, le gambe, ma anche il modo in cui le sue protagoniste si mettono la mano nei capelli, in cui vi passano le dita, un gesto che lui fa fare a tutte le sue attrici – e a volte anche particolarità psicologiche che al tempo sono fragilissime e fortissime, caparbie, determinate. Questa coincidenza degli opposti, questo femminile che condensa in sé il massimo di vulnerabilità da un lato con il massimo di capacità di essere vulneranti, donne ferite e donne che feriscono e tutto questo Truffaut non l’ha fatto mai in maniera ideologica o stereotipata, ma sempre con un’invenzione creativa, un’idea di personaggio e di sentimento che viene fuori in modo straordinariamente vivo da quello che Truffaut ci racconta.
La sposa in nero, La mia droga si chiama Julie, Adele Hugo… sono tutte figure femminili che, così come vedi una bionda di Hitchcock e capisci che è Hitchcock – perché è bellissima ma algida, impeccabile, elegantissima, glaciale anche se intuisci che sotto quella glacialità si nasconde un fuoco che brucia – allo stesso modo, le donne di Truffaut sono a loro volta così inconfondibili, anche se non rispondono ad un unico tipo fisico. Mentre spesso i grandi registi che hanno raccontato il femminile hanno messo in scena donne che in fondo si assomigliano un po’ tutte anche fisicamente, le donne di Truffaut non si assomigliano, anzi, pensiamo alla differenza che c’è tra le brune e le bionde, tra Ardant o Moreau e Deneuve: non sono riconducibili ad un unico tipo fisico ma neanche ad un unico tipo psicologico, altresì delineano una gamma di tonalità espressive psicologiche emozionali molto variegata, tuttavia senti che sono donne truffautiane.
Le donne di Truffaut sono dei grandi personaggi: quello che sono le donne vere non l’ho ancora capito e forse continuano a piacermi per quello, perché c’è mistero dentro di voi… Anche di mia moglie, con cui vivo da più di vent’anni, non ho capito nulla e credo di amarla ancora per questo, perché mi sfugge, perché ogni volta mi sorprende. Mentre io sono banalmente prevedibile lei no, non lo è mai, le donne non lo sono mai, in questo sono molto più interesanti di noi.
Ci sono molti personaggi femminili nel cinema che mi sono particolarmente cari… Nel cinema classico mi piace molto Mildred Pierce di Joan Crawford: è una figura di donna noir, melò, con un destino che le pesa addosso, però anche capace di farvi fronte e di essere padrona di se stessa fino all’estremo. Più recentemente ho trovato molto interessante la protagonista dell’ultimo film di Tornatore, La migliore offerta: ho sperato a lungo che non la si vedesse mai perché per tutta la prima parte del film è solo una voce, una voce assente, invisibile, che riesce a far cadere nella propria raganatela un maschio, un uomo di potere ricco e maturo, con molti più anni di lei, usando solo la voce, negandosi allo sguardo. Negandosi cioè a quella forma di contatto col femminile che il maschile da secoli predilige che è la forma visiva: “ti guardo perché ti desidero, ti desidero perché ti vedo.” Lei è solo una voce nel buio. Poi Tornatore che la fa vedere e a quel punto devo dire che le cose diventano ancora più interessanti, perché c’è una figura femminile che mette in scacco il maschile in un modo sorprendente e mette in scacco un maschile che aveva passato la sua vita a collezionare non donne, ma immagini di donne. E’ un film straordinario sul rapporto fra le donne e le loro immagini, e sul fatto che spesso i maschi le confondono, mentre le donne sanno benissimo che una cosa sono le donne e un’altra le immagini.
* Professore Ordinario di Storia e critica del cinema presso l’Università IULM di Milano, è Preside della Facoltà di Comunicazione, Relazioni Pubbliche e pubblicità della stessa Università. Fondatore e direttore del mensile di cinema e spettacolo Duel (ora Duellanti), è stato critico cinematografico per il Manifesto, la Repubblica, Sette del Corriere della sera e la Voce di Indro Montanelli. Ha collaborato con Bianco & nero, Letture, Segnocinema, Rolling Stone e Max e da oltre dieci anni è titolare di una rubrica di cinema ed economia sulla rivista Economia & Management edita dalla SDA Bocconi.