Giulia Caminito per Super8

Marzo è un mese particolare per l’AbanoRitz, scelto non a caso da Terry e Ida Poletto per essere dedicato a un sogno, un progetto, una realtà: la realizzazione di Super 8, che vi invitiamo, di settimana in settimana, a scoprire. Otto autori hanno soggiornato nel nostro hotel, ma più precisamente nelle stanze del quinto piano: le nostre Creative Room. Otto camere, otto scrittori, otto racconti.

Questa settimana leggiamo Giulia Caminito, classe 88, nata e tutt’oggi a Roma, dove si è laureata in filosofia politica. Nel 2016 pubblica “La grande A” (ed. Giunti) con cui vince i premi Bagutta Opera Prima, Berto e Brancati Giovani, mentre l’ultima pubblicazione è “Un giorno verrà” (ed. Bompiani,2019). Noi abbiamo deciso di vedere cosa avrebbe scritto per la nostra suite design 519 ed eccola qui con

“L’appuntamento”

Alla parete ci sono due putti, nudi e dorati, l’odore delle sigarette di Carlo è intenso, i tavolini di plastica sul terrazzino sono stati macchiati da una pioggia che ha portato terriccio rosso. Poi un rumore che arriva dal bagno mi fa trasalire, alzo il busto e ondeggio, ho le tempie dolenti, mi batte il cuore dietro al setto nasale. Qualcuno ride nel bagno, è la voce da cornacchia di una donna. “Carlo, hai sentito mai ridere così?” domando e mi pare che lui sia fermo, fuori sul terrazzino, la porta finestra è chiusa, non può sentirmi, mi alzo. Cammino sulla moquette, la stanza è la stessa, ogni anno mi premuro di chiamare l’hotel a gennaio per prenotare il pernottamento nel mese di aprile: voglio la centodue, ha un bel terrazzino e un’anticamera spaziosa, i putti sul muro posso scorgerli anche da sdraiata. Mi affaccio al bagno e vedo una donna vecchia e nuda sdraiata nella vasca, non è immersa nell’acqua, sta lì, secca e asciutta, la sua carne è lucidissima, sta ridendo. “Carlo…” chiamo mio marito, che in accappatoio fuma la sua nazionale senza filtro. I capelli di mio marito sono quelli di sempre, ruvidi e ispidi sulla nuca, con la coda dell’occhio vorrei vedere il suo collo sparire nel cappuccio di spugna dell’accappatoio. Lui alle otto fa sempre il suo bagno termale alle piscine dell’hotel, quando non c’è nessuno e i conigli annusano le vasche; io continuo a dormire, lui nuota, rientra, si mette a fumare, io apro gli occhi, mi tiro il lenzuolo fino sopra la testa, mi nascondo e gli grido: vienimi a cercare, lui sale sul letto e finge di non vedermi, chiede: dove sarai mai finita? Ma poi mi trova, con le dita mi pettina i capelli, dice: questa sera un bicchiere di prosecco e poi ascoltiamo il concerto nella sala degli specchi. La vecchia ride. Il suo corpo è duro, i capelli ben acconciati con le forcine, le mani smaltate di blu: le donne vecchie si trasformano in alberi, per gli uomini diventano desiderabili come gli arbusti al lato dei marciapiedi, le erbacce, i salici piangenti. Lei è una donna corteccia, io non ho superato i trenta: devo chiedere a Carlo di rientrare e venirmi a cercare. Poi bussano alla porta della stanza, sono le nove e mezza, all’AbanoRitz sanno che a quell’ora io mangio uova strapazzate e pomodori freschi. Ogni aprile, alla stanza centodue, alle nove e mezza, tre pomodori e un piatto di uova tiepide, i colpi alla porta sono diventati cinque. La vecchia fa: “E che non apri?”. Apro gli occhi, sento la luce in faccia, la stanza è cambiata, ne intravedo i contorni troppo illuminati. Sono spariti i putti, la moquette rosso scuro a terra, i tavolini di plastica nel terrazzino. E’ una nuova stanza d’albergo e sembra essere di un’altra città: le luci sono lunghe come steli, il letto è basso e largo, la camera è grande come una casa. Mi alzo stordita dal sonno e dal sogno e faccio pochi passi, vedo un divano a cinque posti, riviste che sponsorizzano macchine da corsa e champagne, un televisore delle dimensioni di un bambino. Non c’è niente che conosco. “Carlo, dove siamo?” chiedo ad alta voce, ma noto che l’altro lato del letto è intatto, lui non ha dormito qui. La sera prima non ricordo cosa abbiamo fatto, né perché non siamo nella nostra solita stanza. Non ho dimenticato però la risata della vecchia, sto per aprire la porta scorrevole, so che è quella del bagno, ma poi mi fermo. Sento freddo alle ginocchia, ho paura di trovarla lì come fiore sradicato e albero divelto: una pianta morente. Mi guardo intorno, noto l’ora, sono già le dieci, nessuno ha bussato per la colazione, ma mi aspettano sul tavolo accanto alla finestra un vassoio di frutta e una paperella di plastica gialla. La stanza sembra adatta a una famiglia di quattro e io sono sola, mi muovo lenta e guardo la coperta in lana grossa abbandonata sul divano. Non sento odore di fumo, la luce è forte e io vedo un’altra porta scorrevole, mi domando dove conduca, la spalanco e scopro che è una cabina armadio, guardo i vestiti appesi, non vi sono cravatte, né camicie stirate, non c’è traccia di uomini. Appesi ci sono i miei abiti, li trovo ingialliti, ne vedo di sconosciuti dai colori tenui, al centro c’è il mio vestito più costoso, fatto da una sartina a Campo de’ Fiori, regalo di un compleanno, ha tre petali viola sulla gonna, le bretelline sottili; il vestito mi guarda, ha le cuciture lente e l’aria dimessa dei cadaveri. Non oso sfiorarlo e apro cassetti, sposto stampelle, gli oggetti di Carlo sono spariti, deve essersene andato. Ho un dolore alla testa che prende il collo e la nuca; Carlo mi dice sempre quando sto male che devo stendermi e riposare e allora lo faccio: mi sdraio nell’armadio, fisso il soffitto di una stanza perfetta per un’ereditiera di New York. Noi viviamo a Centocelle e questa è sempre l’unica vacanza l’anno che facciamo, l’unico vizio: le uova, i pomodori, farsi il bagno alle otto di mattina, i conigli, il prosecco, la sala degli specchi. Spalanco meglio gli occhi: sono giovane e ho la vita davanti, Carlo non può essere sparito. Vedo appeso un costume intero nero e un accappatoio, li indosso lasciando scivolare a terra il pigiama di cotone e poi spalanco la porta e cammino di fretta. I corridoi mi fanno sentire sperduta, le porte sono tutte bianche e i numeri di colori diversi, spunta una ragazza con occhi da gatta e caschetto alla francese, mi sorride e intona un Bonjour molto in confidenza, io inizio a correre con le ciabatte di stoffa ai piedi e il fiatone di chi non resiste tre passi. Trovo un ascensore alla fine del corridoio sulla sinistra, premo il pulsante e si apre subito, è nuovo e lustro. Ho trent’anni, sono gli anni Settanta, per sempre quelli dei vestiti a rombi, le partite a biliardo di Carlo, le sigarette tenute accese durante i pasti. Ho un tremito quando arrivo nella hall che, a differenza del resto, è sempre la stressa, quella hall dai tappeti persiani, gli specchi con gli arabeschi, le poltroncine di velluto, il bar, le tende broccate, la hall da nave crociera che mi ha fatta innamorare la prima volta che sono venuta qui. L’hotel a pensarci bene mi pare scisso in due come sirena, ha la coda antica e la testa nuova, i piani bassi sono quelli di tutta la mia vita, all’ultimo piano si celano camere delle meraviglie dove nelle cabine armadio puoi far nascondere nani, fate e città in miniatura. “Quand’è che le avete ristrutturate?” chiedo a un cameriere in livrea bianca. “Cosa, madame?” mi riserva lo sguardo che darebbe a una radice o a un bulbo. Non gli rispondo e cambio direzione, io e le mie ciabatte di pezza attraversiamo la hall nello sfruscio dei pacchi, dei borsoni. Carlo deve essere alle piscine, l’ingresso è al primo piano, salgo a piedi. La piscina è grande, sovrastata da una volta a cassettoni in cemento, c’è un dolce tepore, una signora usa degli attrezzi in acqua per snellire i fianchi e io cerco mio marito, di solito si mette vicino al bar per comprare acqua frizzante e un’arancia; ma non è neanche lì. Sento farsi largo la tristezza, acre e appuntita, tutta insieme sale fino alla gola e al mento, mi trema la mascella, allora fermo dal braccio un giovane ragazzo biondo che sta portando a lavare gli asciugamani. “Ha visto mio marito? Un uomo sui trentacinque, non troppo alto, capelli neri portati all’indietro, era con me ieri…” gli domando. “Ora le chiamo qualcuno, madame” lui mi guarda compassionevole e io vorrei gridare e strapparmi via l’accappatoio. La mia tristezza è diventata ferocia, stringo la mano sul suo braccio. “Voglio che chiami mio marito” dico come fossi serpente. Il ragazzo lascia gli asciugamani e si occupa del rettile che sono diventata, mi permette di tenere ferma la presa sul suo avambraccio, ma è lui a trascinare me con lentezza, continua solo a dire: “Ora risolviamo”. Vorrei di nuovo immergermi nelle acque calde, al terzo bagno sarò più liscia, dopo il quinto farò i fanghi, ogni sera stenderò sulla pelle la crema bianca e compatta: sarò nuova, cambierò età e lignaggio. “Mi porti alla stanza centodue, la prego” dico nel mio sibilo ormai inoffensivo e lui non risponde, continua a condurmi. Scendiamo a piedi nella Hall, il ragazzo si guarda intorno, pare cercare aiuto, finché non vede una donna; lei ha i capelli bianchi striati di grigio, ampi pantaloni neri, zoccoli col tacco e un maglioncino di filo, lui la chiama, lei si avvicina. La donna dice: “Signora Gregori, si è persa di nuovo?”. Io non voglio ascoltarla, giro il viso verso la parete dove c’è un’enorme specchio antico: è lì che vedo la faccia della vecchia che ride. Ora sono seduta nell’ufficio della donna, lei si chiama Ada e mi ha fatto fare un tè ai frutti rossi. Non ho più avuto bisogno di chiedere spiegazioni: la visione nello specchio mi ha restituito tutta insieme la mia verità, ma la signora Ada mi ha messo in mano lo stesso un foglio. E’ firmato Silvana Gregori, che sono io, e accanto il nome di lei, Direttrice dell’AbanoRitz. Il suo ufficio è pieno di carte e di disegni, ha fiori freschi in un vaso di vetro blu, io sento le occhiaie nere colarmi sulle guance e il seno cadere a ridosso della pancia. Il foglio è una lettera retrodatata all’aprile del 2016, il primo aprile della mia vita senza Carlo. La signora Ada nella lettera mi fa le sue condoglianze e mi invita al suo Hotel, sa che non posso permettermi la mia camera, la centodue, e sa che sono anni che non vado più, dalla malattia mia e poi quella di Carlo, ma mia figlia le ha telefonato, ha chiesto gentilmente di ospitarmi lì un’ultima volta, perché non ricordo più bene, ho bisogno della memoria dei giorni in cui sono stata felice. La signora Ada ha quindi deciso che soggiornerò ogni anno, in una delle stanze all’ultimo piano, perché sono nuove e ancora i clienti dell’albergo, abituati alle stanze antiche, non si sono convinti a prenotarle: la stanza libera in quella settimana di aprile sarà mia. Un regalo dell’Hotel a una famiglia che per trenta anni ha soggiornato lì, con gli unici soldi che aveva per le vacanze. “Ricorda ora?” mi domanda Ada e io dico di sì. “Grazie” le rispondo. “Non ho più trent’anni, non è così?” chiedo con voce minuta. “No, signora Gregori, ma qui all’AbanoRitz se vuole potrà sempre averli” fa un sorriso gentile e tira fuori una bomboletta spray da dentro un cassetto. “Permette?” mi chiede e io annuisco. Allora lei leva il tappo e mi nebulizza sul viso dell’acqua termale, l’odore dell’acqua, il suo saporino mi riportano indietro alle abluzioni, ai cocktail in piscina, alle uova, ai pomodori, ai putti, alle sigarette nel terrazzino, a quando io mi nascondevo nel letto per farmi cercare. “Viene questa sera dopo cena al party?” mi domanda Ada mettendo via lo spray. “No, mi spiace” mi riavvio dietro le orecchie i capelli bianchissimi, ricordo di aver portato il vestito costoso per indossarlo stasera e aggiungo: “Ho un appuntamento nella sala degli specchi”.

© Giovanni De Sandre

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