Strano quest’anno, lo sapevo che era bisesto e dunque funesto, ma io avevo pensato fosse superstizione. L’aggettivo bisestile significa due volte sesto. Di fatto la necessità di organizzare l’anno civile secondo un calendario è stata un bisogno comune a tutte le civiltà umane organizzate. Ma alla attenta osservazione degli astronomi si è presentato un problema: l’anno civile e l’anno solare non hanno la stessa lunghezza. Precisamente, l’anno solare risulta essere circa sei ore più lungo rispetto a quello civile. Un nonnulla, ma, col passare dei decenni e dei secoli, questo scollamento avrebbe portato a uno slittamento delle date, perciò si è rivelato necessario un correttivo, quello dell’aggiunta di un giorno al calendario ogni quattro anni.
Nella tradizione, questo giorno veniva aggiunto al sesto prima delle calende di marzo: le calende (da questo il nome ‘calendario’), erano il primo giorno del mese, quindi al 24 febbraio, il sesto giorno avanti al primo di marzo, veniva affiancato un ‘secondo sesto’. Ma dato che i mesi non sono più scanditi da calende, none e idi, questo giorno viene semplicemente aggiunto in coda all’ultimo di febbraio. Il 2020 è un anno bisestile. Significa che i giorni non sono 365, ma uno in più: il 29 febbraio. L’anno bisestile cade ogni 4 anni: l’ultimo che abbiamo vissuto è il 2016, il prossimo sarà il 2024, ma lo sono soltanto quelli divisibili per 400. Questo complesso calcolo è stato inizialmente creato addirittura da Giulio Cesare nel 46 avanti Cristo e l’anno bisesto lo si vuole disastroso perché febbraio, per gli antichi romani, era il mese dedicato ai morti.
In realtà la mia impressione è di trovarmi sospesa tra il non più e il non ancora .Quest’ultima è una aspettativa positiva, una sorta di speranza. Sperare è un concetto più filosofico che psicologico se si riflette sul fatto che la speranza non è una emozione, ma piuttosto una motivazione. È una sensazione molto complessa, che chiama in causa diversi altri elementi come la fiducia e la resilienza, di cui tanto si parla. La speranza, che per me è intimamente legata ai sensi e alla capacità umana di riunire tutte le forze per riuscire a raggiungere un obiettivo, mi ha sempre resa potente, ma con il trascorrere degli anni, e delle esperienze, sento che il deposito delle mie speranze si va pian piano esaurendo.
Una certa chiarezza di ciò che non è più davvero, io l’ho cominciata ad avere solo in questi ultimi 10 anni: nel 2011 quando è morto mio zio Silvio, il fratello giovane di mio padre, più forte nel 2013 quando ho lasciato Favella e, definitivamente, nel 2015, quando abbiamo iniziato il “piano industriale” del ritz, e ora in quest’ultimo anno, da marzo 2019 a marzo 2020, è dolorosamente evidente. Faccio fatica a lasciare andare, a mollare, a prendere decisioni che rappresentino una fine. Preferisco stare nella mia zona di comfort. Come tutti, immagino. Attaccata come sono ai ricordi e alla memoria forse non avevo mai fatto un elenco di ciò che si è concluso o è venuto a mancare significativamente, anche perché, in maniera un po’ pavida, lo confesso, ho sempre pensato, nel profondo, che tutto sia recuperabile in qualche modo. Il problema risiede nel vuoto che si crea quando persone o cose o situazioni escono dalla nostra vita. I ricordi restano conficcati nel cervello, senz’altro nel mio, anche se non sono relazionati ai sentimenti. Sentire la mancanza di qualcuno o qualcosa è molto più che ricordare e, soprattutto, molto più che soffrire. La mancanza è più di un semplice ricordo e io faccio fatica a rassegnarmici per me è una forma di ancoraggio, così la coltivo, la trattengo; ma arriva il momento, lentissimamente, che, dopo 15 round sul ring, tocca buttare la spugna,allora rimuovo e seppellisco in maniera definitiva. Qui al ritz, in compagnia di GLORIA, tutto riaffiora prepotentemente e invade lo spazio del non ancora…