Se mio nonna avesse avuto le ruote, sarebbe stata una carriola.
Se, se: inutile fare ipotesi sul “virus” della nonnitudine, bisogna solo ammalarcisi. Peraltro, io, a mia nipote Isabella, ne ho regalata una l’altra settimana di carriola e lei la porta con grande orgoglio andando avanti e indietro con i suoi stravaganti carichi. Mi sono resa conto di quanto Isabella sia diventata importante nel mio cuore in questo periodo di cattività, in cui non posso vederla. Avevo sempre pensato che essere la nonna paterna sarebbe stata una versione “minore” della nonna materna, ma non è andata così. Ho amato essere madre di figli maschi e mi ero convinta che sarei stata una nonna particolarmente dotata per un nipotino, ma non è andata così: sono totalmente affascinata e innamorata della mia nipotina e, pur non essendo per niente ingabbiata in un ruolo storico, ne sono gelosissima. È evidente oramai chela famiglia non è più un nucleo indissolubile tra quella di origine e quella creata; io per esempio mi sono trovata a vivere in una situazione di maggiore supporto assieme ai suoceri che nella mia famiglia d’origine dove tutte le donne lavoravano: un matriarcato di imprenditrici dell’hotellerie.
Diventare nonni, un tempo, significava più o meno l’essere giunti a un punto della vita in cui si guardava a se stessi come a persone “arrivate” che accompagnavano i più giovani nell’universo della memoria e nella profondità della vita autentica. Non è stato così per mia nonna nei miei confronti e non è stato così per mia madre nei confronti dei miei figli. Appartengo alla generazione di chi ha vissuto un passaggio epocale del rapporto genitori-figli, subendone le ripercussioni in entrambi i casi, quel ruolo venerativo e assistenziale che si viveva nei confronti delle generazioni che ci avevano preceduti e che oggi viene proiettato sui nostri figli. Non so dunque che tipo di nonna sono, ma Isabella la sento parte di me. Non ho un modello di riferimento, un esempio virtuoso di cui narrare o a cui ispirarmi. Io oggi non saprei quale nonna interpretare se non ché sento crescere un bene infinito e purissimo, una tenerezza un po’ malinconica verso ogni traguardo di mia nipote, la curiosità di vederla crescere e la gioia di pronosticare per lei infinite vite straordinarie individuandone tracce in ogni segno, gesto, azione che compie.
Mi rendo conto della realtà e non mi sfugge che nella nostra società ci sono 14 milioni di persone con più di 65 anni. A molti nonni di oggi, va riconosciuto l’importanza strategica del loro ruolo, sono diventati un perno dello Stato sociale parallelo: 1 milione di nonni fanno i badanti, curandosi di altre persone anziane del nucleo familiare, 4 milioni si occupano dei loro nipoti, mentre entrambi i genitori lavorano. Ma la cosa più clamorosa riguarda il supporto finanziario. In pratica 6 milioni aiutano, economicamente, figli e nipoti. Si sta passando da una generazione di nonni con poco interesse, assistiti dai figli e spesso dediti all’accudimento dei piccoli di casa, a una generazione di nonni molto più attivi nel mantenere vivi i loro interessi personali, più indipendenti e forse un po’ meno disponibili nei confronti della gestione dei nipoti facendolo senz’altro in maniera meno scontata come qualità e quantità del tempo. I vecchi, gli anziani o gli antenati sono oramai altre categorie sociali rispetto ai nonni e io so solo di essere la mamma di Giovanni, di amare sconsideratamente sua figlia che cresce brava e bella grazie a un’educazione, quella condivisa dai suoi genitori, la mamma e il papà di Isabella, che per me è come un nuovo linguaggio tutto da imparare, un’educazione altra dalla mia e da quella che io stessa ho impartito, che guardo come un’entomologa, mentre Isabella, di lingua-madre inglese, mi dice: nonna i love you festeggiando oggi il suo secondo compleanno senza di me.