Uno straordinario incontro con Carla Perrotti, la “signora dei deserti”. Le sue traversate, iniziate con l’obiettivo del record, sono approdate all’esperienza di un’assoluta essenzialità, diventata poi irrinunciabile.
Quale è stato il percorso che l’ha portata a diventare la “signora dei deserti”?
Sono convinta l’incontro con il deserto fosse in qualche modo nel mio destino. Il mio percorso è iniziato quanto non ero più giovanissima, come accade solitamente per chi intraprende un’attività legata ai record. Io non avevo mai cercato più di tanto il deserto, ma mi ci sono trovata in diverse situazioni nelle vesti di turista e documentarista. Io e mio marito, che è un medico con la passione per il viaggio e le immagini, abbiamo girato per anni documentari per la televisione italiana. Nel 1990, mentre eravamo nel Sahara per un documentario sulla Parigi-Dakar, abbiamo incontrato per caso la carovana del sale dei Tuareg. Sono rimasta totalmente affascinata dal loro modo di vivere il deserto, fatto di ritmi naturali e di silenzio. A quel punto è scattato qualcosa dentro di me, il desiderio di fare in prima persona un’esperienza di questo tipo e di conoscere dall’interno quella realtà così estrema.
Da quel momento la sua vita è cambiata…
Si, sono entrata a far parte del team No Limits con il quale poi ho intrapreso un percorso che mi ha portato ad attraversare cinque deserti in quattro continenti, sempre a piedi ed in solitaria. Nel 1991 ho attraversato il deserto del Ténéré in Niger, dopo ci sono stati il Salar de Uyuni in Bolivia, il Kalahari, il deserto del Taklimakan in Cina e per ultimo, nel 2003, il Simpson Desert, nel cuore del continente australiano. Tutte esperienze che ho deciso di trasferire agli altri attraverso i miei libri: “Deserti”, uscito nel 1998 , e poi “Silenzi di sabbia”, in cui racconto le ultime due traversate, quelle più lunghe ed impegnative.
Cosa l’ha portata a scegliere questo nuovo approccio al viaggio?
E’ stata proprio la volontà di conoscere e capire la realtà del deserto, un luogo che secondo me ha qualcosa di magico. Vivere dall’interno in stretto contatto con questo ambiente trasmette delle emozioni, delle sensazioni che non sono “normali” e che difficilmente altri ambienti, anche se sono molto belli e forti, riescono a dare. Il deserto in genere è ritenuto un ambiente duro, ostile e senza vita. In realtà è vero che non c’è vita, però si può trovare molto altro, soprattutto dentro di sè. Ad un certo punto durante la prima attraversata in solitaria mi sono resa contro che nel deserto era possibile fare un percorso interiore piuttosto che fisico o geografico. Quello che stavo facendo era un’esplorazione non solo di luoghi ma soprattutto di sensazioni, e da quel momento è scattata la voglia di ripetere l’esperienza, il deserto è diventato un richiamo, una specie di droga. Quando uno conosce il deserto poi non riesce più a starci distante.
Cosa aggiunge all’esperienza di un viaggio estremo il fatto di essere da soli a compierlo?
Innanzitutto si trattava di stabilire dei record: ogni deserto che ho attraversato a piedi da sola è stato un record al femminile e nel caso del Taklimakan è stato un record in assoluto. Inoltre, quando si è completamente da soli in queste situazioni estreme, bisogna fare appello a tutte le nostre risorse per andare avanti. In questo modo possiamo veramente renderci conto del nostro potenziale, del fatto che quelli che si considerano come dei limiti fisici sono in realtà soprattutto delle questioni mentali. Questa consapevolezza diventa una risorsa preziosa anche nella vita di tutti i giorni. Io non sono una persona eccezionale: non sono giovane, vivo a Milano, ho una vita normalissima, una famiglia e se io ho potuto fare tutto questo vuol dire che non è solo questione di gambe e muscoli, c’è qualcosa di più. Ed è una cosa alla portata di tutti, l’importante è allenarsi, prepararsi, ma soprattutto avere degli obiettivi.
Ha mai avuto paura?
Io sono sempre partita con un atteggiamento positivo, non ho mai pensato di non farcela o che potesse capitarmi qualcosa. Ovviamente ci vuole una grande preparazione per imprese di questo tipo, sia fisica che per quanto riguarda l’organizzazione del percorso, in modo da ridurre al minimo le situazioni di pericolo.
Per la maggior parte delle persone il deserto è simbolo di vuoto, solitudine e desolazione. In cosa consiste secondo lei la bellezza del deserto?
Il deserto è un luogo la cui bellezza che va oltre il fattore visivo. Di questo mi sono veramente resa conto durante la mia ultima esperienza: un percorso nel deserto in compagnia di Fabio Pasinetti, un maratoneta non vedente. Lui era partito con l’idea di fare un record, ma quando siamo tornati ha realizzato di essere completamente cambiato. Le sensazioni, le emozioni, i grandi silenzi del deserto riescono a comunicare in profondità con il nostro animo, se siamo disposti ad ascoltare. Questa è quella che io chiamo la “magia” del deserto.
Nel corso delle sue spedizioni lei ha anche avuto modo di confrontarsi con le popolazioni locali, che abitano da secoli in questi luoghi. Come ha vissuto questi incontri?
Loro per me sono stati dei grandi maestri, mi hanno veramente insegnano come approcciare il deserto e come viverlo. Con i Tuareg ho fatto la carovana del sale, con un Boscimane ho attraversato per caso una parte del deserto del Kalahari. Sono persone da cui ho imparato fisicamente e materialmente a sopravvivere nel deserto, mi hanno insegnato l’essenzialità, mi hanno insegnato a rispettare il deserto, una cosa essenziale e che paga sempre. Come quando si incontrano gli animali del deserto, che sono spesso molto pericolosi. Ma se si entra nel deserto con un atteggiamento positivo e con la consapevolezza di essere ospiti in quell’ambiente allora si ha anche meno paura. Poi lì tutto assume un altro valore, perché non c’è veramente niente e ogni piccolo incontro – come può essere un topolino o un volo di uccelli – diventa un miracolo, un regalo del deserto.
Quale è la cosa che manca di più quando si è da soli in una situazione di totale privazione come è quella del deserto?
Io dico sempre che nel deserto non manca nulla, casomai a me manca il deserto quando torno qua. Io ho conosciuto molti deserti, ciascuno diverso dall’altro, nei colori nel paesaggio, nella composizione della sabbia. Quando mi chiedono quale preferisco non so mai cosa rispondere perché per me sono tutti bellissimi. Forse perché io identifico i deserti con IL deserto, per me è un’entità più che un luogo geografico, un mio interlocutore, con il quale mi confronto e al quale confesso magari le mie debolezze, le mie fatiche, e al quale chiedo aiuto per andare avanti in certe situazioni. Se un ambiente come il deserto lo si affronta pensando ad una sfida si perde in partenza, perché noi non possiamo sfidare il deserto come non possiamo sfidare il mare. Questo della sfida è un atteggiamento un po’ maschile, ma alla fine vedo che loro sono quelli che soffrono di più durante imprese di questo tipo.
Quindi secondo lei ci sono delle differenze nel modo di viaggiare di una donna, rispetto a quello di un uomo?
Sicuramente, gli uomini hanno sempre un atteggiamento aggressivo, di sfida rispetto al deserto. E’ tipico dell’uomo voler far vedere che è forte, invece noi donne siamo più equilibrate e gestiamo le cose in maniera più semplice. Bisogna riuscire ad instaurare un rapporto con il deserto e quando finalmente si arriva a sentirsi sabbia significa che si è entrati nel deserto non solo fisicamente ma anche psicologicamente e a quel punto tutto diventa più facile.
Quali consigli darebbe ad una persona che volesse di affrontare un’esperienza estrema come quella del deserto?
Intanto è importante entrare con estrema serenità, perché non c’è niente di pauroso nel deserto. Bisogna avere un atteggiamento mentale positivo, di grande curiosità. Soprattutto chi non conosce questo ambiente, secondo me, deve avere la voglia di capire com’è, perché un conto è vedere una foto o un filmato, un conto è esserci dentro fisicamente, toccare la sabbia. È proprio questo contatto intimo a fare la differenza. Nel deserto poi si ricomincia a vivere secondo i ritmi naturali: si dorme con il buio e con il sole si vive, c’è una specie di ritorno alle origini ad una dimensione che, nonostante la sofferenza e le difficoltà, ci fa stare bene. Nel nostro quotidiano, nonostante le comodità, siamo tutti stressati perché la nostra è una condizione che non è naturale. Vivere l’esperienza del deserto, anche per pochi giorni, ti segna profondamente. Il ricordo di quei momenti non è come quello che si ha al ritorno da una vacanza, da una crociera, che all’inizio è bellissimo ma dopo una settimana si è già dimenticato tutto. L’esperienza del deserto ci potrà infatti aiutare ad affrontare ogni giorno le sfide della nostra vita, perché ripensando a quello che si è riusciti a fare in quelle condizioni si può trarre nuova forza per gestire anche le situazioni difficili che possono capitare. Non è un viaggio e non è neanche una vacanza: è un percorso.
Quale sarà la sua prossima impresa?
Mi piacerebbe provare a vivere un mese sott’acqua. E’ progetto che coltivo da qualche tempo, una sfida psicologica oltre che fisica, perché si tratta di rimanere a lungo in profondità, con poca luce, in spazi ristretti. Non so ancora se riuscirò a farlo, ma io dico sempre che l’importante è avere dei sogni, se poi si realizzano o meno non è così importante.