… rivolgendomi a chi mi ha letto ieri o a chi mi segue almeno dal 16 aprile (GLORIA festeggerà presto il suo compimese: ricchi premi e cotillons il primo maggio) ricorderò la questione, per niente salomonica, che riguarda il tea e il caffè. Non bevo caffè, amo il suo profumo ma il gusto mi disgusta… quel prezioso aroma amaro proprio non mi piace. Peraltro a inizio ventunesimo secolo mi diagnosticarono, in maniera piuttosto superficiale, a mio avviso, una dumping syndrome (nausea, astenia, sudorazione, lipotimia…) da caffeina. Non ho mai più verificato o approfondito la questione: allora ero stata così male che decisi di vivere senza caffè. So di deludere molti, ma non mangio il tiramisù né il pocket coffee e da piccola rifiutavo il caffelatte, eppure, forse per compensazione, sono “vittima” della Coca Cola. E intendo l’original taste meglio se in bottiglietta di vetro. Sappiamo tutti quanti che la ricetta, ma soprattutto le proporzioni degli ingredienti della Coca-Cola, non è mai stata rivelata e che il prototipo della bevanda fu inventata nel 1886 dal farmacista statunitense John Stith Pemberton come rimedio per la stanchezza e il mal di testa. Si è molto mitizzato il fatto che la Coca-Cola Company faccia oggi produrre la bevanda a fornitori imbottigliatori che ricevono lo sciroppo preparato unicamente dalla casa madre al fine di diluirlo con acqua gassata. Sappiamo anche che la bevanda contiene sicuramente caffeina e un aroma denominato “7X” (ossia aroma numero 7: trattasi di estratti dalle foglie della pianta di coca, privati delle sostanze psicotrope). Comunque sia, sarà la pressione bassa o la dumping syndrome, sarà che la famosa lattina è nata come me nel 1960 o la straordinaria creatività pubblicitaria della Company, o piuttosto che mia madre me la vietava come tutte le bevande gasate; ma io amo la Coca Cola, non meno del tea che bevo in abbondanza la mattina con tutto il suo bel carico di teina come probabilmente altri si prendono il caffè per carburare. Sempre rifacendomi a quanto scritto ieri mi domando quanti amino farsi il bagno piuttosto che la doccia che ho assimilato, forzandone la simbologia, all’espresso. Converrete con me che concedersi un bel bagno caldo è rubare del tempo da dedicare al nostro corpo, non tanto e non solo per lavarlo, ma per coccolarlo con sali e oli essenziali, vapori e getti idromassaggio, scaglie di sapone effervescenti e bagnoschiuma (prodotto che guarda caso è entrato in commercio nei miei anni 60): profumati, colorati e glitterati. Insomma un buon bagno caldo resta un’esperienza e un vero lusso tornato di gran moda in questa nostra società edonista. Vintage o meno che sia, in albergo, farsi un bagno, fa parte della Vacanza. Cinque stelle o meno al “ritz” si consiglia di evitare la doccia. Ed io, una volta di più, che sia il tea o la vasca, mi regalo volentieri , soprattutto la mattina, del tempo per me.
Mai, come in questi due mesi, la mia mattina ha assunto un tale valore che il suo tempo si è dilatato a dismisura, diciamo che la mia mattinata è slittata oramai alle 14.30 del pomeriggio… Non c’è sveglia, nessun appuntamento, soprattutto nessuna routine rispetto agli orari fissi che potevo avere da direttore d’albergo -il più vincolante: l’apertura dei ristoranti al lunch e al dinner- e comunque, da quando la mia mamma è mancata, il cellulare di notte è silenziato; così anche le ore del sonno si sono dilatate.
Al “ritz” ci sono ottimi materassi e una tenda oscurante che lascia entrare la giusta luminosità del sorgere del sole: quel tanto che permette, al mio risveglio, di non vivere lo shock del passaggio violento dal buio alla luce. Vi ho già detto che ho la pressione bassa e aggiungo che sono RH negativo, per quel che conta, ma so che la mattina io sto bene, le ore del mattino mi servono come fossi un Landini testa calda degli anni 60 appunto… raccolgo pensieri, energie e ottimismo che poi sfrutto e sperpero nella giornate sempre più lunghe. Dunque la mattina è MIA. E ora lo è senza sensi di colpa, senza responsabilità e senza rubarla a niente e a nessuna. “Aurora aurum in ore habet” è un proverbio antichissimo di origine incerta e che si trova in molte lingue diverse (Die Morgenstunde hat Gold im Munde lo dicono anche i tedeschi). Lo dicono i monaci con le loro ore canoniche mattutine, gli induisti che parlavano di forza pranica del mattino, gli alchimisti perché l’oro filosofale, ovvero la rugiada degli adepti, era molto più facile da reperire al mattino. E’ vero da sempre per me. Il mattino ha l’oro in bocca ovvero le prime ore della giornata, riposati e lucidi dopo un buon sonno ristoratore, sono le più produttive ma non tanto o non soltanto per il lavoro. Il mio mattino, mi sono resa conto ultimamente, allude piuttosto al tempo magico dell’infanzia per cui a ogni bimbo si aprono infinite possibilità. Produttiva dunque non tanto per agire ma per pensare e progettare.
Il mattino è il momento delle intuizioni: i due emisferi cerebrali sono al massimo della loro sincronizzazione e si possono scorgere aspetti della vita che durante il giorno sfuggono alla nostra attenzione perché impegnati nel fare. Non essendo incalzata dall’agire ho una specie di “visione d’insieme”, ed è il momento migliore della giornata per leggere e prendere appunti. Al mattino c’è luce dentro e fuori di me, così, in questo tempo sospeso della solitudine, continuo a dirmi che non voglio tutto torni come prima… troppe cose non andavano bene: non voglio ritorni tutto alla normalità, ma desidero fortissimamente una NEW normal life dove poter utilizzare, senza blutetooth, l’App che mi ha dato Madre Natura: i miei Neuroni con tutte le sue infinite e libere Sinapsi.