Intervista a Tiziano Scarpa a cura di Federica Pozzi
Tiziano Scarpa è nato a Venezia nel 1963: narratore, drammaturgo, poeta, dopo aver pubblicato con le maggiori case editrice Italiane – Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Fanucci, Mondadori – e aver vinto nel 2009 il premio Strega con il romanzo Stabat Mater esce in questi giorni con un nuovo romanzo, Le cose fondamentali (Einaudi).
Cosa significa diventare genitori? In questo libro Tiziano Scarpa ci dà il punto di vista di un padre su quella che rimane una delle questioni fondamentali in Italia: il diritto alla famiglia, alla maternità e anche alla paternità.
In occasione della presentazione del nuovo libro a Venezia, presso l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica, l’abbiamo incontrato per porgergli qualche domanda.
Il romanzo racconta la storia di Leonardo, che divenuto padre del piccolo Mario decide di scrivere per il figlio la sua vita, le sue esperienze. L’improvvisa e drammatica malattia del piccolo Mario e la scoperta di una realtà incredibile e inattesa porteranno Leonardo a riflettere proprio sul significato delle “cose fondamentali” della vita.
Allora, Tiziano, parliamo subito di Leonardo, il protagonista, che compra un quaderno e scrive, sulla carta per suo figlio, a mano, poi grazie alle chiacchierate con l’amico Tiziano, si sente antiquato e passa al computer.
Quale è stato il tuo rapporto nel tempo con il modo di scrivere, con gli strumenti dello scrivere?
Al liceo mi piaceva cercare le penne stilografiche, i pennini con gli inchiostri colorati, poi ho usato la macchina da scrivere (che faceva un gran chiasso, di notte), e a ventisette anni mio padre mi regalò il primo computer. Insomma, niente di originale. L’unica cosa forse interessante è che appartengo ancora a una generazione che ha attraversato i diversi mezzi della scrittura.
Il Tiziano del libro invece è estremamente “tecnologico”…
Sì, quel personaggio, che si chiama come me, è agganciato alla contemporaneità, non solo perché ha gli ultimi modelli di telefonini, ma anche perché è piuttosto prosaico, soprattutto sulle “cose fondamentali”, le questioni importanti, è ironico, sarcastico. Rappresenta il disincanto, il controcanto al protagonista.
Per la sensibilità contemporanea, ogni affermazione viene messa in dubbio dal suo contrario, che risulta altrettanto plausibile: si vive immersi in un’ironia costante, che però mina la possibilità di andare fino in fondo in certe questioni gravi.
La svolta finale, che risolve la situazione, la offre al protagonista l’amico Tiziano attraverso un quadro, ancora una volta come in “Stabat Mater” l’arte è una sorta di strumento di riscatto. Potremo dire che l’arte è fra le “cose fondamentali”?
Guarda, noi la chiamiamo “arte” (nelle sue varie forme: musica, pittura, cinema eccetera), ma, se ci pensi bene, di che cosa si tratta? L’arte è il meglio che riceviamo dalle persone che sono vissute prima di noi. Certe persone hanno capito alcune cose importanti sulla vita, e ce le dicono nel modo migliore possibile: l’arte non è altro che questo. Perciò può risultare decisiva anche nei momenti critici della vita.
Se la vedi in questo modo, togli via quella incrostazione “culturalista” che si è formata intorno all’arte.
Nelle note finali di “Stabat Mater” dici: “pensare attraverso personaggi diversi da me”. In questo nuovo libro più che dal pensare il lettore viene attratto dal concetto di guardare attraverso vari personaggi, e su tutti c’è lo sguardo di Tiziano che è quello che sa vedere “le cose fondamentali”?
Il personaggio che ho chiamato Tiziano ha fatto altre scelte nella vita rispetto al protagonista, Leonardo, che ha una moglie e un figlio. Quello di Tiziano è lo sguardo di una specie di amico “ostetrico”, di cui Leonardo ha bisogno: infatti, mentre la maternità è più immediata, non credo lo sia altrettanto la paternità. Bisogna decidere di essere padri anche dopo che hai avuto un bambino, lo devi accogliere, non è un essere uscito dal tuo corpo…
Comunque, a me pare che questo romanzo, più che sulla paternità sia un libro sull’amicizia, sull’amicizia fra uomini e su quello che l’amicizia può dare, tanto a Leonardo quanto a Tiziano. La soluzione è difficile e precaria, non sarà certo rose e fiori, ma la trovano insieme.
“Nessun altro che noi: le parole di nessuno: siamo nostre:” ad un certo punto per Leonardo le parole diventano arpie, che prendono il sopravvento.
Cosa sta succedendo?
Diciamo che ad un certo punto nel libro le parole “prendono la parola”. C’è un rovesciamento: da strumento che trasmette un messaggio diventano protagoniste, parlano loro. Questo succede nel capitolo più drammatico del libro: è come se Leonardo non riuscisse più a esprimersi dicendo “io”, e lasciasse alle parole il compito di dire i suoi pensieri più tremendi.
Quasi come uno specchio, le parole mostrano a Leonardo cosa sta facendo veramente, gli dicono quello che sta pensando e che non ha più il coraggio di scrivere a suo figlio dopo che ha scoperto cose di lui che non sa accettare.
E’ come se si allargasse l’inquadratura di un film e si vedesse la troupe, il regista, l’uomo del ciak: è come nel Truman show quando lui si accorge che è tutto finto.
E’ il momento in cui Leonardo scopre che le parole non sono strumenti ma sono anche loro una cosa fondamentale di cui non aveva tenuto conto fino in fondo; anche se, in effetti, lui si domanda per tutto il libro che parole può usare per parlare al figlio, come lo deve chiamare, quale tono adoperare. Ma in quel momento fa un’esperienza ancora più radicale, e le parole parlano al posto suo.
Leonardo il protagonista porta il tuo cognome, il suo amico porta il tuo nome,
che cosa hai voluto dire con questo piccolo “gioco”?
Volevo far capire che non mi riconosco solo nell’uno o solo nell’altro: il protagonista non sono io, non coincido con lui, e però una parte di me c’è anche in lui.
Che cosa ti aspetti da questo libro?
Questo libro mi ha già dato tanto, scrivendolo ho fatto delle scoperte e delle acquisizioni per me importantissime, per esempio nel capitolo in cui le parole prendono la parola, è un momento di immersione, di esperienza profonda del linguaggio. È una cosa che ho intenzione di sviluppare ancora nei miei prossimi libri.
Ecco, a me piace fare esperienze quando scrivo, questo è anche il motivo per cui scrivo storie, che attraverso i personaggi mi permettono di sentire profondamente, di immedesimarmi, e di scoprire cose che non coglierei se mi limitassi a pensarle. Alla fine, la scrittura è un modo di intensificare il pensiero, e di sprigionare le potenzialità della fantasia, che altrimenti, se non scrivi, resta piuttosto vaga, incompiuta.
Se poi questo romanzo darà qualche cosa anche a chi lo legge, sarò felicissimo. Ma su questo sono fiducioso, perché succede sempre che, se mentre scrivevo provavo qualcosa di intenso, questo qualcosa arriva con la stessa intensità anche a chi legge.
Tra i finalisti del Premio Campiello c’è l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, “Le perfezioni provvisorie”, che come nei precedenti romanzi ha per protagonista l’avvocato Guerrieri, così come accade per altri scrittori italiani: Lucarelli – Coliandro, Camilleri – Montalbano, divenuti poi personaggi di fiction. Che cosa ne pensi ?
E’ sicuramente una delle caratteristiche della letteratura del passato che ci siano dei personaggi che ritornano, nella mitologia, nelle saghe, nei poemi cavallereschi. In tempi più recenti, mi vengono in mente Simenon, Agatha Christie, Rex Stout… insomma il giallo, e poi il noir.
Questo crea nei lettori una confidenza con il personaggio, una profondità di prospettiva: ne conosci le avventure precedenti, la biografia, perché hai già letto altri romanzi in cui compariva.
Poi, per essere maliziosi, è vero che possa avere delle convenienze produttive, cinematografiche, televisive: una volta che hai trovato l’attore giusto, ti va bene per sette film, non devi ricominciare sempre da capo a cercarne un altro.
Federica Pozzi, Libreria Al Capitello, Venezia Cannaregio 3762/63 info@libreriacapitello.it