Pare proprio che a pagare maggiormente questa manovra finanziaria saranno le parti più deboli della nostra società: come sempre le donne.
Ed è semplice rendersene conto. Nel pubblico il maggior numero di lavoratori è di sesso femminile, così come è donna la gran parte degli insegnanti. E i conti per questo settore sono molto semplici da fare. Nel pubblico infatti la riforma pensionistica a 65 anni è già stata attuata. Solo che i soldi risparmiati non sono stati investiti come si era stabilito per politiche di welfare che sgravassero le donne di alcune incombenze casalinghe, ma solo per fare cassa.
I lavoratori del pubblico si sono inoltre visti bloccare i rinnovi di contratto mentre gli insegnanti non potranno più usufruire degli scatti di anzianità. Sembra che però si sia riusciti a portare a casa per loro tfr e tredicesima.
Ma le donne, e questo vale per loro in misura maggiore rispetto ai maschi, subiscono anche in quanto precarie. Non solo perché percepiscono paghe più basse (le Acli hanno calcolato che ogni giorno una donna guadagna 27 euro in meno rispetto a un uomo), ma anche perché sono spesso costrette a firmare in bianco il proprio contratto subendo il licenziamento qualora rimangano incinte. E certo è strano sentire poi ministri e parlamentari esaltare il lavoro precario come strumento “educativo” come fa Straguadagno, volevo dire Stracquadanio, quando è evidente a tutti le Nazioni occidentali che politiche basate sul lavoro flessibile riducono la crescita della popolazione perché minano la classe media e il potere d’acquisto.
Negli altri Stati esistono paghe minime che gli stagisti devono percepire quali rimborso spese. Oggi invece gli imprenditori spesso usano i tirocinanti per abbattere i costi del lavoro pretendendo da loro competenze che ne farebbero professionisti qualificati. All’estero il precariato è visto per quello che è: un passaggio. In Italia spesso diventa l’unico modo per sbarcare il lunario. Fuori del nostro Paese il lavoro precario è ritenuto un handicap, poiché priva i lavoratori di diritti e di certezze e si ovvia a questo problema pagandolo di più.
In Italia non solo il precariato non è tenuto in alcun conto (i precari sono lavoratori di serie B senza diritti costretti a pagare contributi che non si tradurranno in futuro in una pensione decente), ma esso finisce col diventare mortificante e impoverente.
Saranno poi nonne, zie, sorelle e madri a portare il peso della cronica mancanza in Italia di asili. A pagare di più le amiche che non hanno un welfare familiare cui affidarsi. Senonoraquando ha fatto i conti e ha visto che tassando per esempio le rendite finanziarie al 23% si potrebbero ricavare più di 2 miliardi di euro da reinvestire in politiche sociali. Una cifra enorme visto che si è calcolato che versando 1,3 miliardi di euro in tre anni si potrebbe contribuire ad aprire 5000 asili pubblici.