Marina Nemat è il nome di una scrittrice di origine iraniana che oggi vive in Canada. Ha pubblicato per Cairo Editore due romanzi: “Prigioniera a Teheran” e “Dopo Teheran. Storia di una rinascita”.
Sarà possibile incontrare la scrittrice Lunedì 18 Aprile ad Udine presso la libreria Feltrinelli alle ore 18,00; e Martedì 19 Aprile a Pordenone presso Palazzo Montereale Mantica alle ore 20,45. I titoli degli incontri saranno: “L’Iran e la libertà”. Gli interventi sono sponsorizzati dall’associazione “La Cifra“.
Imprigionata a Teheran per aver osato, durante la sua infanzia, alzarsi in classe e chiedere: “Quando si finirà con la propaganda e si inizierà a fare matematica”. Marina Nemat è uscita dal carcere solo con la promessa che avrebbe sposato la sua guardia carceraria. Cosa che è avvenuta. Alla morte del suo primo marito, si è risposata ed è emigrata in Canada. Aveva vissuto la rivoluzione in Iran degli anni ’70 con grande interesse e speranza.
Il periodo in prigione si è protratto tra torture e sevizie varie che solo a distanza di anni la Nemat ha trovato la forza di raccontare. Marina Nemat con i suoi romanzi, tradotti in 13 lingue, va inserirsi di diritto tra le grandi scrittrici iraniane del ventunesimo secolo, accanto a donne del calibro di Azar Nafisi.
Così ha detto la Nemat, cristiana di origine armena, in una sua precedente conferenza sulla libertà nei totalitarismi religiosi:
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<P ALIGN=JUSTIFY STYLE=”margin-bottom: 0cm”><FONT FACE=”Verdana, sans-serif”><FONT SIZE=2><I>Lo ricordo molto chiaramente: alzai la mano e chiesi all’insegnante di calcolo: “Perché non insegni il calcolo invece della propaganda?”. Rispose: “Se non ti piace quello che insegno, vattene”. Allora, raccolsi i miei libri e uscii, seguita dalla maggior parte della classe. Fu l’inizio di uno sciopero che durò tre giorni. Diventai una leader. Era qualcosa di molto semplice, non c’era nessuna ideologia dietro: ero una ragazza di quattordici anni che cercava di combattere per i propri diritti. E una ragazza di quattordici anni, come anche voi sapete, pensa di essere invincibile. Lo pensavo anch’io, finché vennero a prendermi e mi portarono in prigione. […] Essenzialmente, la scuola superiore era un inferno e nel carcere di Evin vigeva la regola che quando ti arrestavano poi ti interrogavano. Se non collaboravi, o se pensavano che non collaborassi, ti portavano in una stanza. È quello che fecero a me. Mi legarono a un letto di legno e, mentre giacevo prona, incominciarono a frustare le piante dei miei piedi. Ho tentato di spiegare quello che ho provato nel mio libro, una biografia della mia vita in Iran. Ma come si può spiegare il dolore a qualcuno che non sa che cosa sia? Come si fa? È impossibile. Tortura ed esecuzioni di giovani erano la normalità nel carcere di Evin in quegli anni, ed è ancora così. […] Infine, fui costretta a sposare uno dei miei inquisitori. Essenzialmente, si trattò di uno stupro legalizzato. Cosa faresti se a diciassette anni il tuo inquisitore ti dicesse “se non diventerò il tuo ragazzo, arresterò i tuoi genitori”? È sorprendente, ma a Evin fondamentalmente mi trovavo in due carceri: una era rappresentata dalle mura che mi circondavano e che mi separavano dalla mia famiglia, l’altra era la prigione della mia vergogna non soltanto di essere diventata prigioniera politica ed essere stata torturata e così via, ma anche perché mi trovavo in questa strana relazione, se così si può chiamare, con il mio inquisitore.</I></FONT></FONT></P>
<P ALIGN=JUSTIFY STYLE=”margin-bottom: 0cm”><FONT FACE=”Verdana, sans-serif”><FONT SIZE=2>Tratto dal volume </FONT></FONT><FONT FACE=”Verdana, sans-serif”><FONT SIZE=2><I>La libertà</I></FONT></FONT><FONT FACE=”Verdana, sans-serif”><FONT SIZE=2>, Spirali Milano, pp. 96-98</FONT></FONT></P></td>
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Lo ricordo molto chiaramente: alzai la mano e chiesi all’insegnante di calcolo: “Perché non insegni il calcolo invece della propaganda?”. Rispose: “Se non ti piace quello che insegno, vattene”. Allora, raccolsi i miei libri e uscii, seguita dalla maggior parte della classe. Fu l’inizio di uno sciopero che durò tre giorni. Diventai una leader. Era qualcosa di molto semplice, non c’era nessuna ideologia dietro: ero una ragazza di quattordici anni che cercava di combattere per i propri diritti. E una ragazza di quattordici anni, come anche voi sapete, pensa di essere invincibile. Lo pensavo anch’io, finché vennero a prendermi e mi portarono in prigione. […] Essenzialmente, la scuola superiore era un inferno e nel carcere di Evin vigeva la regola che quando ti arrestavano poi ti interrogavano. Se non collaboravi, o se pensavano che non collaborassi, ti portavano in una stanza. È quello che fecero a me. Mi legarono a un letto di legno e, mentre giacevo prona, incominciarono a frustare le piante dei miei piedi. Ho tentato di spiegare quello che ho provato nel mio libro, una biografia della mia vita in Iran. Ma come si può spiegare il dolore a qualcuno che non sa che cosa sia? Come si fa? È impossibile. Tortura ed esecuzioni di giovani erano la normalità nel carcere di Evin in quegli anni, ed è ancora così. […] Infine, fui costretta a sposare uno dei miei inquisitori. Essenzialmente, si trattò di uno stupro legalizzato. Cosa faresti se a diciassette anni il tuo inquisitore ti dicesse “se non diventerò il tuo ragazzo, arresterò i tuoi genitori”? È sorprendente, ma a Evin fondamentalmente mi trovavo in due carceri: una era rappresentata dalle mura che mi circondavano e che mi separavano dalla mia famiglia, l’altra era la prigione della mia vergogna non soltanto di essere diventata prigioniera politica ed essere stata torturata e così via, ma anche perché mi trovavo in questa strana relazione, se così si può chiamare, con il mio inquisitore. Tratto dal volume La libertà, Spirali Milano, pp. 96-98 |
Noi crediamo che quella di Lunedì e Martedì prossimi siano un’importante occasione per interessarsi di un mondo, quello arabo, che oggi è in continuo fermento. Durante il ciclo di conferenze nel nordest, la Nemat parlerà della figura della donna nel mondo orientale e islamico.