C’è un giorno alla settimana, di solito il sabato o la domenica, in cui faccio le pulizie a fondo di casa-ritz, ovvero delle stanze che occupo in albergo… di questo forse non vi ho ancora parlato. All’inizio, per una sorta di scaramanzia o forse, piuttosto, come rito propiziatorio, avevo pensato di occupare di volta in volta camere diverse e, in qualche modo, l’ho fatto, ma mi faceva sentire ancora più sola e ancora più persa, temporanea e di passaggio.
Le pareti fisiche hanno, storicamente, il fondamentale significato di sicurezza dai tempi delle caverne dove i nostri antenati si riparavano. Alla funzione di rifugio sicuro aggiunsero presto quella di spazio dove potersi esprimere: le pareti delle caverne divennero, simbolicamente e iconograficamente, riflesso del mondo interno ed esterno. Ugualmente, seppure in modo più articolato e complesso, oggi la casa è il luogo che meglio rappresenta la personalità di chi la abita. Eppure, a volte, capita di non sentirsi bene a casa propria o di non riconoscerla o addirittura di avere la sensazione di casa in luoghi che non ci appartengono. Ho capito così come e perché, un cliente del ritz, fidelizzandosi, voglia dormire ogni volta nella stessa stanza al medesimo piano, prenotando la sua camera.
Mi sono trasferita da subito al quinto piano, nell’appartamento, in quella “casa-non casa” che avevo abitato da ragazza; affrontando, in qualche modo, il sancta–sanctorum di mia madre, dove, da oltre 20 anni, oramai abitava da sola, l’unico spazio del ritz in cui, di fatto, stava sola. In realtà c’è stato un periodo, o meglio dei periodi, più o meno brevi, in cui mio fratello Simone tornava in albergo trovando rifugio al quinto piano ed allora abitava 2 stanze: una per lavorare e una per stare. Quest’ultima era la camera viola, quella di quando eravamo ragazzine mia sorella e io. È successo così che, in questi mesi, ho preso possesso della stanza dove dormiva Simone da piccolo, quella più vicina alla camera della mamma, mentre la stanza viola è diventata la mia stanza di disbrigo.
Ciò che volevo confessare è che, nel giorno del cambio biancheria, scelgo una stanza e la spoglio depredandola delle lenzuola e degli asciugamani… all’inizio è stato un gioco, poi la pigrizia di non scendere in guardaroba, ma ora, a pensarci, mi preoccupo un po’. Sto diventando un’accumulatrice seriale? Mi sono trasformata in una Mazzarò veneta di Verghiana memoria? Soffro di bipolarismo non riuscendo a risolvere il confine tra ospitalità e proprietà? La biancheria utilizzata come le camere da fare sono un’allucinazione che mi tranquillizza e sto dando di matto?
Meglio non analizzare troppo, certamente sentirsi a casa propria non è quando la compri o quando l’arredi una casa, e nemmeno, a volte, quando si torna allo stesso numero civico; essere a casa al ritz ha voluto dire metterci tutto il meglio di me dando un senso al mio tempo, lì e in quel momento. Ho verificato che ci si riconosce in un luogo quando si da’ un contributo autentico… laicamente potrei utilizzare, in questo contesto, una massima cristiana: TUO non è quando prendi ma quando dai.