L’altro giorno, leggendo il TTG, una rivista turistica specializzata, ho trovato un trafiletto che ha attirato la mia attenzione. Raccontava la storia dell’ingegner Ordoñez. Il signore in questione è stato sorpreso dal lockdown in un albergo spagnolo che avrebbe dovuto aprire di lì a poco. Ordoñez pare si sia rifiutato di fermare i lavori e abbandonare il progetto, così, una volta mandate a casa tutte le squadre di operai e tecnici, è rimasto a finire gli ultimi collegamenti e le verifiche degli impianti in solitaria. Insomma la versione maschile e spagnola di GLORIA. Ideologicamente e fattivamente Ordoñez e io siamo come due gemelli separati alla nascita. Tra tubi e interruttori, tra idraulica e meccanica, il solerte Ordoñez ha terminato e collaudato: bagni, ascensori e motori di aria condizionata, rendendo agibile l’hotel che sarà inaugurato il 14 giugno. Tenendo fede ai tempi di consegna ha permesso l’apertura della struttura diventandone l’eroico testimonial. Ho pensato di mandargli un messaggio di solidarietà e stima. Ordoñez ama il suo lavoro e ne ha massimo rispetto. Del resto è un ingegnere e non ha solo sovrinteso al progetto e alla sua realizzazione, ma ha letteralmente partecipato alla costruzione; evidenziando , una volta di più , la nota diatriba tra architetti e ingegneri. Sia gli architetti che gli ingegneri sono infatti coinvolti nella progettazione e nella costruzione di un edificio, o altro, tuttavia, l’architetto si concentra sull’estetica dell’edificio, incluso l’aspetto e la funzione, l’ingegnere invece determina ciò che è fisicamente possibile, quali materiali verranno utilizzati e come verranno risolti i diversi problemi di praticità e sicurezza. Papà era senz’altro come Ordoñez, un ingegnere creativo la cui laurea specialistica in meccanica me ne ha fatto amare la creatività immaginifica. Vivendo qui al ritz, mi sono resa conto che, in questi mesi di vuoto e solitudine, Gloria sta interpretando, bene o male, l’ing. Poletto mio padre, dopo che, per anni, Ida aveva impersonato la signora Emma mia madre.
Lei si è sempre definita una salutista, ma non aveva certo un buon rapporto personale con il cibo. Mia mamma, diversamente da sua madre, la mia nonna Ida, non era golosa e non amava mangiare, non lo faceva né con gusto, né con piacere, se non per pochi piatti che adorava come il risotto di zucca e le tagliatelle con i piselli, gli asparagi burro e parmigiano, la polenta con il formaggio Vezzena, le sarde in saor, i torresani e le costicine di agnello…; credo non abbia mai assaggiato molluschi o mitili né una tartare… amava tutte le verdure, ma non tutta la frutta, non ha mai messo in bocca una banana o un caco e nessun dolce se non le profiterole. Eppure aveva un palato sopraffino e riusciva a creare menù che incontravano i gusti di una clientela internazionale e ingorda. Oggi sarebbe una fautrice del chilometro zero e dello slow food. Detestava i buffet e il Covid le ha dato ragione. A tavola, ma solo a tavola, era frugale, forse perché era ossessionata dall’ingrassare, questione che letteralmente la disgustava. Era una sostenitrice delle minestre e le declinava in mille modi diversi, alla faccia del mio essere carboidrati dipendente. Qui e ora: cuocere un ricco minestrone mi scalda la pancia e anche il cuore.
Il KM 0 prima di diventare una moda è stata una filosofia. La filiera corta (dal produttore al consumatore) valorizza il territorio, ha un minor impatto ambientale e garantisce la genuinità del prodotto. Prima di diventare “politica”, dicendo che un prodotto è “a chilometri zero” s’intende dire che, per arrivare dal luogo di produzione a quello di vendita e consumo, esso ha percorso il minor numero di chilometri possibile. L’idea di fondo, in sostanza, è quella di ridurre l’inquinamento che il trasporto di un prodotto comporta. Secondo questa idea risulta vantaggioso consumare prodotti locali, poiché promuovere il patrimonio agroalimentare regionale vuol dire abbattere i prezzi, oltre a garantire un prodotto fresco e sano facendo riscoprire al consumatore la propria identità territoriale attraverso i piatti della tradizione. S’interromperebbe così quella catena che è nata con la grande distribuzione e che lavora con i grandi numeri disconoscendo il rapporto consumatore-produttore. È un modo di opporsi alla standardizzazione e alla globalizzazione che aumenta la produttività, ma a discapito della diversità. Mi domando allora perché con il Covid si sia privilegiata l’apertura dei supermercati, perché si sia burocratizzata tutta la tracciatura, perché si sia strumentalizzato il km 0 opponendo i mercati della Coldiretti alle boutique del gusto, perché si debba rendere un’economia di valori in economia di business, creando degli zoo alimentari come Fico o certe kermesse del piatto tipico, mi domando, infine, come sia capitato che un prodotto stagionale sia diventato sconosciuto e molto costoso. È evidente che in realtà come il ritz è difficile sposare certe scelte d’acquisto che per loro natura e dimensione non possono mantenere qualità e quantità costanti, ma è anche vero che non occorre avere un intero menù basato sulla filiera corta. Quel che so è che oltre all’agricoltura, son diventate a chilometro zero anche le autovetture e che presto, con il turismo di prossimità, lo diventeranno anche gli ospiti del ritz: pochi ma buoni?