Marzo è un mese particolare per l’AbanoRitz, scelto non a caso da Terry e Ida Poletto per essere dedicato a un sogno, un progetto, una realtà: la realizzazione di Super 8, che vi invitiamo, di settimana in settimana, a scoprire. Otto autori hanno soggiornato nel nostro hotel, ma più precisamente nelle stanze del quinto piano: le nostre Creative Rooms. Otto camere, otto scrittori, otto racconti.
Questa settimana leggiamo Ilaria Gaspari, classe 86, nata a Milano e vive oggi tra Roma e Parigi. Ha studiato filosofia alla Normale di Pisa per poi dare il dottorato alla Sorbona con una tesi sulle passioni. Diverse le sue pubblicazioni e svariate collaborazioni con testate giornalistiche. Passioni, sentimenti e quindi amore, sono questi i motivi che l’hanno portata alla camera 515 e che ci presenta con
“Un cuore intero”
Isa per fare i compiti si arrampicava in cima a uno sgabello. Al di là del bancone Ivo preparava aperitivi e le chiedeva la tabellina dell’otto. Quando si arrivava a otto per sette, Isa, seduta con le gambe penzoloni, diceva cinquantasei; ma Ivo, prima di annuire come faceva ogni volta, esitava. Isa sapeva che era solo perché era il numero dei suoi anni: lei ne aveva otto, lui sette volte tanti. I vassoi d’argento risplendevano di riflessi color rubino, Ivo tagliava a spicchi arance Sanguinello. Poi le dava un calice di spremuta e la trattava come una vera signora: ecco il suo spritz, diceva, gradisce dei salatini? Li gradiva molto, e gradiva anche le olive, ma quelle arrivavano solo verso la fine della primavera, quando le giornate erano lunghe, estenuanti, e il sole colava dalle finestre spalancate sui tappeti e gli ottoni, sul legno lustro del pianoforte e sul grande lampadario fatto tutto di fazzoletti rovesciati (ma non di stoffa: di vetro di Murano). D’estate, signore eleganti scendevano con vestiti lunghi e scollati, ventagli e stole, turbanti di raso e orecchini a forma di pastiglia. I compagni di Isa vivevano in case che si somigliavano. La casa di Isa, invece, non somigliava a nessun’altra. Aveva chilometri di corridoi rivestiti di moquette azzurro scuro, e ventisette poltrone solo nella hall. I pranzi e le cene venivano preparati da cinque cuochi in una cucina ribollente di pentoloni. Isa poteva scegliere fra le sette portate del menù bordato d’oro, e se era triste andava a nascondersi nella dispensa. In cucina ascoltavano alla radio la voce di quella cantante che piaceva tanto a Isa, quella che cantava come se stesse sorridendo, ma stranamente riusciva a mettere nel sorriso una gran tristezza; almeno, così pareva a lei, mentre la sua mamma sosteneva che era solo per via dell’accento. Sarà, pensava Isa, ma covava la segreta convinzione che quella voce cantasse proprio sorridendo, e che sorridesse con tristezza. Un bel giorno ebbe l’occasione di scoprire come stavano davvero le cose: la padrona della voce si presentò alla reception dietro un enorme paio di occhiali scuri. Isa e la sua mamma la riconobbero subito, per via dell’elaborata cofana bruna che le si ergeva sulla testa aggiungendo alla statura già imponente una dozzina di centimetri supplementari. Sul carrello d’ottone scorrevano quattro valigie monogrammate, all’ingresso il tassista scrutava controluce la filigrana della banconota che gli era stata allungata come mancia da una mano inanellata. Non era certo la prima cliente famosa dell’hotel: quando la segretaria per telefono aveva detto che Madame aveva l’abitudine di viaggiare nel più stretto anonimato, la mamma di Isa aveva potuto tranquillamente replicare che non c’era nemmeno bisogno di specificarlo: riserbo assoluto, ça va sans dire. Sul registro fu segnata la prenotazione, a grandi lettere di stilografica, sotto il nome di Madame Dubois. I bauli lasciavano presagire un anonimato piuttosto scenografico, ma Isa sapeva che così viaggiano le persone famose: con nomi falsi come l’oro del Giappone e abbastanza bagagli da vestire un reggimento. È un po’ diverso in questo caso, signorina, le spiegò Ivo mentre lei finiva il riassunto del Barone rampante e lui preparava il punch. La cantante, anche se la sua voce usciva in continuazione dalla radio, aveva giurato a sé stessa di non tornare mai più in Italia, dopo una notte tremenda di molti anni prima, quando aveva cantato su un palco pieno di fiori senza sapere che poco distante di lì moriva il suo amore. Ivo non aveva paura di turbare la bambina con le storie che, davanti a lei, i grandi sussurravano soltanto, e di questo Isa gli era grata. D’altronde era l’unico a chiamarla signorina: anche di questo gli era grata. Era una storia proprio triste. E che ci è venuta a fare, qui?, chiese Isa a quel punto. Non siamo in Italia? Il dubbio era legittimo, ma Ivo le spiegò che quando i medici le avevano raccomandato di curare con i fanghi maturi certi reumatismi che le rendevano difficile calcare il palco, lei aveva scelto senza esitare l’hotel: lo sapevano tutti che per quel genere di terapie loro non avevano rivali nel mondo. E Madame sapeva che se non fosse guarita avrebbe dovuto smettere di cantare, e sarebbe stato come perdere il suo amore una seconda volta. Isa prese a osservare la signora ogni volta che poteva. Aveva parecchio tempo a disposizione: la scuola era chiusa, lei aveva già finito i compiti per le vacanze. La cantante si alzava tardi la mattina, o meglio: si alzava presto ma scendeva tardi, perché prendeva la colazione in camera. Isa aveva seguito il fiocco bianco del grembiule della Marisa fino alla porta della camera 515. Sul vassoio d’argento luccicavano la campana che proteggeva i croissant, il bricco del caffè e il calice con la spremuta, e una dalia in un piccolo vaso. Marisa bussava tre volte e, come prescritto, si ritirava. Dopo che i suoi passi si erano spenti in fondo al corridoio, Isa contava fino a dieci dal suo nascondiglio in mezzo alle tende: poi sentiva un clic e due lunghe mani brune agguantavano alle estremità il vassoio. Vassoio e mani sparivano, un altro clic e Isa scendeva nella hall. La studiava seduta a pranzo, sola, dietro il paravento a disegni giapponesi; la vedeva verso sera leggere nel parco sotto un cappellone di paglia. Madame non parlava e non sorrideva mai, e questo a Isa dispiaceva. I bambini a volte capiscono le cose meglio di tutti, perché non stanno tanto a badare a quali sono le cause e quali gli effetti; e Isa una cosa l’aveva capita. Finché Madame non avesse sorriso di nuovo, anche la sua voce sarebbe stata perduta. E questo, come le aveva spiegato Ivo, le avrebbe spezzato il cuore una seconda volta. Così si convinse che doveva aiutare Madame; il problema è che non sapeva come fare. Disturbare i clienti era vietatissimo; e in ogni caso, lei per nulla al mondo si sarebbe sognata di dar noia a quella signora così bella, che nascondeva i suoi occhi tristi dietro occhiali ad ala di farfalla, dietro i paraventi, dietro la porta della stanza 515. A furia di pensarci le venne un’idea. Il vassoio rimaneva incustodito per dieci secondi precisi ogni mattina: era il mezzo migliore per mandare un messaggio a Madame, qualcosa che la tirasse un po’ su di morale. Isa, quando era stata a Venezia, aveva pranzato al ristorante cinese. Fu tutto memorabile: pareti rosso lacca, lanterne, bacchette; poi erano arrivati quei biscotti che parevano conchiglie, la zia le aveva detto di spezzarne uno e dentro c’era un bigliettino che le annunciava un regalo. E davvero poi quel giorno, come per magia, aveva avuto in dono una boccetta di profumo. A Madame avrebbe fatto piacere ricevere bigliettini che annunciassero piccole cose belle, come a lei era piaciuto trovare nel biscotto quella premonizione; così cominciò a informarsi la mattina presto, in cucina, delle sorprese del menu. E se per esempio un giorno c’era il bianco mangiare per dolce, lei deponeva sul vassoio di Madame un biglietto su cui aveva scritto a grandi lettere, in stampatello, OGGI MANGERAI QUALCOSA DI DOLCE E FRESCO. Le annunciava ogni novità: le nespole, il concerto di violoncello nella sala degli specchi, persino le piogge d’estate, le stelle cadenti, la luna piena. Era veloce come una lepre e nessuno la colse mai in flagrante mentre infilava il bigliettino fra le pieghe del o sotto la pasta al burro dei croissant. Spiava il viso di Madame: ora che fra loro c’era quella nuova forma di comunicazione Isa si nascondeva meno, quasi si arrischiava a far capolino fra le boiserie della hall, quando la signora passava nei suoi abiti fruscianti, come fossero vecchie amiche e lei potesse osare farle una sorpresa; e le pareva che un tovagliolo sorriso tutto nuovo sollevasse ogni giorno un po’ di più gli angoli di quella bocca imbronciata. Le cure ebbero l’effetto sperato. Merci, sussurrò, dolce e roca, la cantante alla mamma di Isa; le valigie erano già sul carrello, le ruote correvano sui tappeti spessi che soffocavano ogni rumore. Isa si sentiva stringere il cuore, le mancava quasi il fiato, a veder partire la signora; ma era felice. L’aveva guarita, proprio lei che di anni ne aveva solo otto, un settimo di quelli di Ivo. Le fece un cenno con la mano inanellata, Isa la guardò uscire dalle porte a vetri che di giorno rimanevano sempre aperte. “Si è liberata la 513,” disse la mamma alla responsabile del piano. Isa non seppe mai a chi aveva mandato i suoi messaggi. Si impose di continuare a pensare che quei bigliettini avessero davvero guarito la signora, con il suo sorriso triste e le sue mani brune. E quando fu grande e l’albergo fu suo, decise che la stanza a cui aveva indirizzato tutti i biglietti, la 515, non sarebbe stata una stanza come le altre. Fece realizzare apposta una coppia di poltrone rosse con la forma di due cuori giganteschi; cuori interi, guariti, come quelli di chi canta e sorride.