di Luciana Boccardi (da Virtuose n. 9)
Peggy Marguerite Guggemheim, nata a New York il 26 agosto 1898, era di origini europee: il nonno paterno, Meyer Guggenheim, appartenente a una ricca famiglia di ebrei svizzeri, era arrivato a New York verso la metà dell’Otttocento, per curare l’attività di import-export di tessuti. Ebbe sette figli, ognuno dei quali seppe trovare fortuna ma fu anche protagonista di una generosa distribuzione di beni. Murray fondò una clinica odontoiatrica per i poveri di New York; Daniel istituì la Guggenheim Foundation per la promozione di attività scientifiche e artistiche; Solomon fondò il Museo che porta il suo nome e la Fondazione omonima, Simon istituì in memoria del figlio John Simon la Guggenheim Memorial Foundation, mentre Benjamin (futuro padre di Peggy) continuò l’attività paterna di commerci in rame, oro e argento. Fin dall’inizio però, la vita di Peggy fu segnata da vicende più grandi di lei: a soli 14 anni restò tragicamente orfana di padre. Benjamin Guggenheim, infatti, morì nell’affondamento del Titanic sul quale si trovava come passeggero, il 14 aprile 1912, lasciando in eredità alla figlia non solo un patrimonio considerevole, ma anche un messaggio di generosità e di grandezza umana, visto che – gentiluomo non per finta – quando era già nell’ultima scialuppa di salvataggio, in una sorta di roulette russa con il destino, cedette il suo posto a una signora che altrimenti sarebbe affondata con la nave. Un gesto documentato da molte testimonianze, nonchè dal messaggio per la moglie che Benjamin Guggenheim affidò ai compagni che si allontanavano verso la salvezza: “ ho fatto solo il mio dovere”. Una fine tragica che ebbe conseguenze immaginabili sulla quattordicenne Peggy, affezionatissima al padre e meno in armonia con la madre, Florette Seligman, rampolla dell’importante dinastia di banchieri americani. Cresce sempre più attratta dall’idea di una totale indipendenza, affascinata dal mondo degli artisti che frequenta anche grazie alle conoscenze dello zio Salomon. L’incontro e poi il matrimonio con Laurence Vail (sfigatissimo pittore dadaista dal quale avrà due figli, Sinbad e Peegen) le consentono di entrare nel mondo delle avanguardie nel quale si riconosce. Poco più che ventenne, in pieno raptus artistico e travolta da una serie di amori che la vedono protagonista di molte vicende più o meno importanti, Peggy vola a Parigi dove il suo intuito artistico prende forma a pieno titolo.
Le sue amicizie vanno da Constantin Brancusi a Marcel Duchamp (con i quali viene fotografata dall’obiettivo dell’amico Man Ray). I figli non rappresentano un punto di riferimento fisso né imprescindibile: la sua corsa dentro i movimenti artistici più eclatanti, i suoi incontri, la vedono passare in una sorta di sovreccitazione continua da un amore all’altro, fino a rendere credibile la leggenda metropolitana che vuole vera una sua dichiarazione fatta una notte in cui festeggiò (si dice) il millesimo amante. Anche qualche amicizia femminile confermò il suo piacere per la trasgressione: non è detto che forzatamente si trattasse di amori saffici, ma molto si è chiacchierato a proposito della grande liaison con Romaine Brooks (della quale apprezzava il talento pittorico) e con la scrittrice Natalie Barney, che le consentì di conoscere Djuna Barnes, di cui divenne grande amica e sponsor affettuoso del libro “Nightwood”. La cosa curiosa è che Peggy era attratta soprattutto da uomini-artisti, tanto che la malignità degli invidiosi sussurrava che non fosse tanto il cotè artistico di Peggy che esigeva anche a letto solo talenti, ma che fosse la frequentazione del suo letto a scatenare negli amanti di turno un talento magari sconosciuto!
Il gioco con l’arte riempie comunque le giornate di Peggy fino a identificarsi con la sua vita stessa. A Londra vive un’emozionante esperienza di gallerista ad alta caratura, forte dell’amicizia con Picasso, con Max Ernst (che nel 1942 diventerà – per pochi anni – suo marito), la frequentazione di Magritte, Salador Dalì, Klee, Chagall, Moore, Giacometti, Calder (che realizzò per lei una scultura eccezionale: la testiera del letto che Peggy volle nella sua stanza veneziana). Qui realizza la prima mostra inglese di Kandinskij e quella di Yves Tanguy prima che lo scoppio della seconda guerra mondiale le suggerisca il rientro a New York, dove riuscirà a portare in salvo la sua preziosa collezione. “Io li avvio, poi sta a loro saper volare!” confessò un giorno l’“americana” seduta al Caffè Florian di Venezia con gli amici inseparabili Giuseppe Santomaso ed Emilio Vedova. Era un lavorante della falegnameria di Solomon Guggnenheim a New York il giovanissimo John Pollock, quando incontrò Peggy che se ne invaghì, dopo aver scoperto il suo talento di artista a
lettere maiuscole. Divenuta sua amante e pigmalione, lo lanciò nell’universo dell’arte più alta. Fatale nella sua vita l’incontro con Venezia: “Non è vero, come troppo spesso si dice, che Venezia è la città ideale per la luna di miele. Vivere a Venezia, o semplicemente visitarla, significa innamorarsene e nel cuore non resta più posto per altro”. E Venezia sarà il vero grande amante di Peggy che qui – lontano dal rumore del mondo – cerca la “sua” vera casa. E la trova nel palazzo “interrotto” affacciato sul Canal Grande, Ca’ Venier dei Leoni, che diventerà la sua dimora e la sede espositiva per la sua collezione, il rifugio veneziano dove tutto il mondo dell’arte della seconda metà del Novecento è passato inevitabilmente per un incontro, un saluto, un business. La scelta del palazzo – già appartenuto alla stravagante Marchesa Casati – non è stata casuale. C’era una storia, tra le pietre di marmo bianco di questa costruzione possente e incompiuta, che fin dal suo nascere aveva conosciuto vicende curiose, prima fra tutte la volontà della potente famiglia Venier di far sorgere, davanti alla dimora sontuosa dei Correr sul lato opposto del Canal Grande, un palazzo “più possente, più bello, più ricco”.
E’ la spiegazione di quella base di palazzo che, forse per ristrettezze economiche sopraggiunte, la sorte ha voluto restasse così, un sontuoso splendido piano terra che si conclude nella bellissima terrazza.
Qui Peggy, con i suoi cani e i suoi “protetti” di turno, trascorse anni burrascosi che videro la pugnace americana a volte anche in guerra con la città, che certamente la ammirava ma – forse – non l’amava. Il suo stesso disordine sentimentale (eravamo in anni di perbenismi, di benpensanti e di “onori di facciata da rispettare”) non favoriva atteggiamenti di simpatia per una donna che non sapeva fermarsi su un amore, ma praticava un usa e getta che – donna o uomo – può risultare sconcertante, in quanto imputabile, a volte, di un disprezzo non celato che Peggy lasciava spesso leggere in quel viso “brutto e interessante” che non lasciava indenne chi avesse la ventura di imbattersi nell’americana del Canal Grande. Intelligenza, personalità, fascino di una cultura artistica innegabile, esperienza di vita, si rivelavano in quello che per me era uno dei visi più mal riusciti sotto il profilo estetico. Un amore diverso invece – forse l’amore (anche perché l’età aggiunge agli amori consapevolezza e saggezza) – fu quello di Peggy per un giovanissimo pittore, Tancredi Parmeggiani, un ragazzo di Feltre che aveva studiato a Venezia, bello, inquieto, bohèmien ai limiti del clochard e con trent’anni meno di lei. Tancredi era il “ragazzo” di vita, affascinante, sempre senza una lira, senza casa né un appoggio: Peggy colse in lui quella vena che avremmo conosciuto più tardi, nelle sue opere.
Venendo meno a una sua teoria che non accettava amanti conviventi – ma solo passeggeri – lo ospitò come compagno ufficiale di vita a Palazzo Venier e lo accompagnò con una forza d’amore che faceva leva non solo sull’attrazione fisica, ma forse anche sul vigore che quel giovane vecchio ragazzo sapeva regalarle. Le cose andarono precipitando perché Tancredi era un “libero” sul serio e nemmeno l’agiatezza che Peggy gli offriva riusciva a placare quella tensione che trovava pace solo davanti a una tela e all’assoluta libertà. L’alcool fuori controllo (e forse non solo l’alcool) divenne la sua compagnia preferita, anche quando l’arrivo a Venezia della figlia di Peggy, Peegen – pittrice a sua volta, delicata e piena di talento sottovoce – fece nascere una scintilla che mise a tragico confronto madre e figlia, suggerendo a Tancredi di lasciare per sempre Venezia e il mondo Guggenheim, intriso di suggestioni d’arte, di Cubismo, Surrealismo,
Espressionismo, ma anche di bisticci amorosi che lo rendevano insofferente. Tancredi muore a Roma, trentatreenne, il 27 settembre 1964. Tre anni dopo, nel
1967, provata dagli strapazzi di una vita buttata al macero, distrutta da una depressione senza ritorno, si lasciava morire a Parigi, quarantunenne, anche Peegen Jezebel Margaret Vail, la figlia di Peggy che non aveva mai smesso di amarlo. Di lei – pittrice delicata e sensibile – restano belle opere come “Ragazze tra gli alberi” del 1936, “Ritratto di famiglia” (1950), “Conversazione intima”, “Clementine” (una delle ultime opere, realizzata nel
1966). Tancredi ha portato con sé forse l’ultima pagina di bohème che ha avuto come protagonista Venezia, il mondo di Peggy Guggenheim e quel palazzo Venier dei Leoni che, già al tempo della Casati, ospitava nel giardino bestie feroci e serpenti cari alla stravagante Marchesa.
Ora, con la cura attenta e colta di un inglese, Philip Rylands – che di Peggy sa tutto, conosce tutto e…non ama intrattenersi sul gossip – la collezione Guggenheim, nel palazzo che tuttora la ospita, rappresenta uno dei punti di forza dell’attività museale e dell’universo culturale veneziano. Peggy Guggenheim – dopo aver ricevuto negli anni ’60 la cittadinanza onoraria veneziana – aveva deciso di donare tutto a quella che riteneva la sua “vera” città, ma il Comune di Venezia rifiutò il prezioso lascito, perché – dichiarò pubblicamente allora – non aveva “le possibilità economiche per onorare il pagamento delle tasse conseguenti al passaggio di proprietà”. Sentenza senza commenti, una delle molte pagine del libro nero che racconterà ai posteri la nemesi di questa città malgovernata e non rispettata da chi avrebbe il dovere, se non di amarla, di governarla come merita. Nella pace del giardino Guggenheim, semiaffacciato sul Canal Grande, dove oggi i visitatori possono respirare anche qualche ritaglio dell’atmosfera che racconta quasi un secolo d’arte, sono sepolti gli inseparabili cagnolini di Peggy e anche le sue ceneri: è morta nel dicembre 1979 mentre si recava nell’Ospedale di Camposampiero, poco lontano da Venezia.