30/06/2020

Pochi giorni fa vi ho parlato del tavolo dove pranzavamo in albergo. Normalmente preparato per 8 persone, è stato, a lungo, in fondo a destra, all’angolo della porta automatica, della bussola che introduce alla cucina. Pur mangiando, per abitudine professionale, alla fine del servizio ristorante, mia madre ci teneva a rimanere fuori dallo sguardo dei clienti e, spesso, si faceva lasciare il cibo pronto in cucina per non vincolare i camerieri lasciando liberi loro di andarsene e lei libera dal suo ruolo… a proposito del discorso di ieri. A turno c’era comunque chi era deputato a “servire la direzione”: non credo fosse un ruolo ambito, forse solo uno stress in più. Al nostro tavolo c’è sempre stato almeno un posto in più, ma avevo la sensazione che mia madre, pur essendo, nel suo lavoro, la persona più ospitale del mondo, svestiti i panni della padrona di casa, amasse avere vicino solo noi figli, lei che per noi non aveva mai cucinato. Sempre formale e molto attenta, una volta seduta a tavola, era invece informalissima fino a diventare, a volte, persino scortese.

Ma c’è stato un tempo in cui la nostra tavola aveva dimensioni davvero notevoli e i commensali erano sempre numerosi: si dava spazio agli argomenti più disparati e i discorsi tra generazioni diverse si incrociavano senza polemiche o discussioni particolarmente aspre. Erano gli anni 80 e si mangiava “in saletta”, in fondo in fondo alla sala, appartati, con un sentore di “casa” che poi è andato man mano scomparendo così come, anno dopo anno, anche i convitati sono venuti a mancare: chi è morto, chi se ne è andato, chi si è allontanato per sempre, chi, semplicemente, ha diradato le visite o cambiato abitudini. La nonna, zii e prozie, papà, gli amici, i cugini , mio fratello, mariti e figli. Svuotata della nostra grande famiglia, la “saletta” si è tramutata tristemente in ripostiglio: utile e funzionale, ma privo di vita e di legami , finanche di ricordi ed è stata così che ce la siamo dimenticata. Era forse nell’estate del 2011, un’estate calda e particolarmente malinconica, ma piena d’amore, che la memoria di quella saletta e del suo sapore mi è tornata prepotentemente in testa e… in bocca. Bocca: bacio non è anagramma di cibo, ma se il primo nutre il cuore, il secondo: il corpo. È stato così che spinta, come sempre mi accade, da emozioni sostenute da motivazioni forti e concrete, che è nata l’idea di trasformare la saletta-ripostiglio in un ristorantino à-la-carte.

Oramai le potenti agenzie on line la facevano da padrone, obbligandoci, per mantenere una buona occupazione, a pubblicare solo i prezzi delle camere, niente soggiorni, niente servizi, solo pernottamento e prima colazione a tariffe mai abbastanza competitive. Di fatto i clienti arrivavano e non sapevano dove andare a mangiare preferendo magari uscire che scegliere la pensione completa. Il ristorante e la cucina soffrivano e il food cost diventava una criticità. Condividendo con mia sorella, come sempre, le mie preoccupazioni, le raccontai la mia idea, il progetto di un ristorante altro che recuperasse business, ma soprattutto valori. Non ho dovuto convincerla: lei ha realizzato materialmente il mio sogno, la sua creatività ha dato vita a un progetto–narrazione che andava dalla pancia al cuore. Rispetto al ristorante del ritz con il servizio in guanti bianchi e la sua raccolta di piatti preziosi, questo era un brutto anatroccolo che contavo sarebbe diventato un cigno.

Nell’atmosfera di una tradizione fatta di cortesia e ospitalità, il ritz inaugurava, nel 2012, al suo interno, un ristorante à-la-carte che nasceva  come un “figlio” un po’ scapestrato, ma intelligente e divertente. Il Brutto Anatroccolo era un po’ la ricerca di sé stessi. Mia sorella promosse anche la scelta del nome e della favola. Questa favola, come per la maggior parte delle storie inventate per i bambini, viene spesso considerata una metafora delle difficoltà che si sperimentano nel diventare “grandi”: nel senso più ampio del termine. La fiaba tende a rinforzare l’autostima e a far accettare, anzi, valorizzare, le differenze, esserne fieri, perché potrebbero, in realtà, rivelarsi una ricchezza per sé e per gli altri. Quel che abbiamo voluto leggerci, Terry e io, è l’elegia di un progresso morale ed etico nell’affrontare in maniera saggia e matura la vita, riconoscendo, a scelte e persone, un valore intrinseco e pre-giudiziale. Il brutto anatroccolo voleva solamente piacere. Non avrebbe avuto filosofie o regole, avrebbe dovuto essere, come “la saletta”, un incontro tra chi si riconosce e si fida. Saziando il corpo, nel nostro ristorantino avremmo scaldato il cuore e stimolato sensazioni e ricordi. A IL BRUTTO ANATROCCOLO i valori sfidano oggi  le strategie e la tavola, intesa come convivio e convivialità, si impone alla cucina spettacolo. Niente spigoli o aggressività per il palato ma curve morbide e sapori tondi. Le persone e i sensi sono al centro. Il nostro “vintage restaurant” è la materializzazione  di un’idea curata in ogni suo particolare, ove ogni cosa è simbolo: dalla sedia al vaso di fiori, dal menù ai bicchieri, dalla  tenda scostata alla porta della vecchia casa della nonna Ida.

Si dice, e riporto le parole esatte, che le favole nascano staccandole dalle nuvole. Cadendo si colorano delle tinte del cielo, portandosi dietro albe e tramonti, l’azzurro o il blu della notte. Poi scivolano, insieme all’inchiostro nella penna dello scrittore, s’inzuppano della sua vita, mescolano verità e bugie, memorie e segreti. Fino a che, a bordo di caratteri mobili, si organizzano in pagine rilegate ad uso e consumo di chi, attraverso le storie, si nutre delle vite degli altri…

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