20/04/2020

Nel diciannovesimo capitolo dei Promessi Sposi il Conte Zio, rivolgendosi al Padre Provinciale che aveva difeso Fra Cristoforo e “la gloria dell’abito“, capace di far sì “che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso diventi un altro”, risponde: “Vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio… l’abito non fa il monaco“. A questo punto Manzoni chiosa: “Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo perde il pelo ma non il vizio“.

L’abito non fa il monaco ma lo veste? L’abito non fa il monaco ma fa noi stessi?
Esiste un fenomeno che gli scienziati hanno definito come: enclothed cognition che, in poche parole, è l’effetto dell’abbigliamento sui processi mentali e sull’immagine che abbiamo di noi; con buona pace delle apparenze ovvero senza dimenticare che l’apparenza inganna ma attenzione a salvare le apparenze anche se ciò che appare, che è visibile, l’esteriorità, può non corrispondere alla realtà. Il modo in cui ci vestiamo insomma influenza la percezione che gli altri hanno di noi, ma anche quello che pensiamo di noi stessi.

Quando ho lasciato casa mia, il 24 marzo 2020 , per venire a occupare e a occuparmi del “ritz”, più o meno razionalmente, non ho fatto le valigie ma ho riempito un borsone di tela e il mio zaino multicolor. Né l’uno né l’altro sono tecnici, certo niente a che vedere con i bagagli leggeri con cui viaggia quel globe trotter eccezionale che è mio cugino Massimiliano o con la funzionalità del bagaglio di mio figlio Francesco quando è partito per Santiago di Compostela. Piuttosto si poteva pensare ai miei di bagagli come alla nota metafora della Vita che si cela dietro il semplice “riempire lo zaino”. Venendo in un albergo vuoto, e poi quando, al contrario, mi costringerò a lasciarlo, preparare il borsone è stato e sarà senz’altro semplicemente un esercizio mentale: un inventario di ciò che si prende e di ciò che si lascia. Lo zaino è uno spazio limitato, dobbiamo escludere ciò di cui possiamo fare a meno, ciò che magari potremmo trovare lungo il percorso. Il peso dello zaino deve essere sopportabile. In realtà sono partita leggera, certa che prima o poi sarei tornata a casa e avrei trovato con rinnovato stupore tutte le mie cose e quegli armadi straripanti di vestiti che tengo oramai divisi non per stagione ma per stile. E soprattutto dal punto di vista dell’abbigliamento ero cosciente sarei entrata, una volta al “ritz”, nel sancta sanctorum della moda: gli armadi di mia madre. Intoccati e intoccabili, contengono abiti di un’eleganza strepitosa, alta sartoria da giorno e da sera, sportivi o di gala, profumano di Arpège di Lanvin e parlano di lei come le scatole degli orecchini Biki o i cassetti pieni di foulard griffati. Non sono stati apparenza, erano proprio lei, raffinatissima e originale, un po’ come il suo modo di fare hotellerie.

Tornando al metaforico zaino un po’ tutti noi tendiamo a procedere, lungo la nostra esistenza, raccogliendo articoli e manufatti,insomma oggetti; sensazioni e ricordi, progetti e aspettative, relazioni e sentimenti… suoni, colori, odori: accumuliamo dentro e fuori di noi cose su cose, gettandone via poche e solo raramente, rendendo il cammino faticoso e lo zaino ingombrante. Quando tocca un trasloco, come dicevamo ieri, e soprattutto se travasiamo la nostra vita dal grande al piccolo, è allora che ci si sbarazza di tantissime cose. L’ultimo mio, fatto 5 anni fa, è stato un drastico setacciare: armata di buratto ho separato la crusca dalla farina. Gli abiti che decisi di tenere mi appartenevano e mi rappresentavano, pur nella loro eterogeneità, come la “vogliadi fragola che ho, a destra, sotto il mio labbro. Decisi poi una parte di regalarli e un’altra di lasciarli, con un certo compiacimento, alle mie nipoti. Una terza parte dei miei vestiti li chiusi in un armadio, da mia madre, al “ritz”, in attesa di essere pronta a separarmene definitivamente, appesi assieme a quelli che ho lasciato, sentimentalmente, 36 anni fa, quando mi son sposata. Ecco, trasferendomi in albergo, strategicamente, non mi ero portata bauli, valigie e cappelliere, perché avevo deciso di sorprendere me stessa, e di scoprirmi, giocando con i ricordi e con quel che rimaneva del mio passato.

Sociologi e psicologi discutono oramai da anni della comunicazione non verbale e risulta che anche il modo in cui ci si veste parli e parli ancor prima di noi, dato che il nostro cervello, che lo si voglia o no, è stato cronometrato e impiega circa 10 secondi per valutare una persona nuova; una volta si chiamava “la prima impressione” e di solito la locuzione completa era: fare buona impressione. Sembra insomma provato che ciò che indossiamo rappresenta alcune caratteristiche della nostra personalità, dei nostri bisogni e del nostro stato d’animo. Ora mi domando quale recondita Ida, quale personalità rimossa, insomma quale straniera che è dentro di me, hanno tirato fuori i miei vecchi vestiti? Quello che ogni mattina, da un mese, scelgo di indossare è un look o uno stile? Esteriorità effimera o dimensione interiore?

2 Comments

  1. marco restelli

    cara Ida, il tuo post odierno mi ha fatto tornare in mente una frase che lessi anni fa nel “Libro degli Amici” di Hugo von Hofmannsthal:
    «Dove nascondere la profondità? In superficie».
    Questo ti dovevo. Buona passeggiata nel Ritz.

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